lunedì 30 settembre 2013

La vita e i suoi paradossi_La scopa del Sistema DFW




Recensione.
La scopa del Sistema
David Foster Wallace
2012, 558pp, 15€
Traduzione it.di Segio Claudio Perroni

Comincio subito col dire che questa mattina mi sono cimentata nell'aggiornamento della pagina dedicata a questo libro su Wikiquote, perché a) era abbastanza scarna e b) ho preso una miriade di citazioni dal libro, alcune davvero esilaranti e mi sembrava giuso renderle pubbliche. Il link alla pagina lo trovate QUI .
Che dire di questo mastodontico, complessissimo, intricato tassello della letteratura americana e mondiale? Per prima cosa dico che appena finito mi è presa la smania di volerlo rileggere daccapo, ma, frenati questi istinti da maniaca-complusiva della lettura e conscia anche del fatto di averne altri quattro da terminare, mi sono limitata a rivedere tutte le citazioni, appunti e note prese durante la lettura per cercare di ricostruire il filo del frammentato mondo narrativo che Wallace costruisce. 
Questa affermazione già stride agli occhi e mi fa venire voglia di smontarla (il libro è così intessuto di filosofia, che ti viene voglia di filosofeggiare per ogni cosa), perché Wallace a tutti gli effetti non costruisce un mondo narrativo, quello che ho pensato io è che Wallace, da scrittore post-moderno e meta narrativo alle estreme conseguenze, voglia dimostrare attraverso questo romanzo le teorie che vi sono contenute. Qui, infatti, viene sviluppato il pensiero secondo cui la realtà e la nostra esperienza esistano solo nella misura in cui sono raccontate, e cioè che tutto, compresa la vita stessa sia un racconto. Nel suo romanzo Wallace mette in scena un doppio paradosso: da un lato sottolinea marcatamente la dimensione narrativa della vita, dall'altro costruisce un romanzo che sfugge allo sguardo voyeuristico del lettore ed è inintelligibile come la realtà stessa, come se fosse una finestra sul mondo. In questo modo da un lato afferma che la vita è narrazione, e dall'altro che la narrazione coincide con la vita e quindi è fuggevole esattamente come questa.
Tralasciando, comunque, questi paradossi filosofici che costituiscono comunque il filo conduttore di tutto il libro, vorrei soffermarmi sul romanzo in sé. La protagonista, Lenore Beadsman è una ragazza di 24 anni che ha l'ossessione di non sentirsi padrona di sé e delle scelte che fa e per questo, nonstante sia figlia di una delle famiglie più ricche di Cleveland ha deciso di lavorare come centralinista per il gruppo editoriale Frequent&Vigorous. Di lei Wallace costruisce una personalità complessa e affascinante, fatta di elucubrazioni, pensieri, innocenza e inconsapevolezza delle caratteristiche assolutamente positive che fanno innamorare un po' tutti i personaggi maschili della storia. Di lei colpisce, almeno a me, la sua prolissità nei ragionamenti cerebrali, che poi ha un corrispettivo mutismo e fuggevolezza nelle questioni sentimentali. Lenore appare un personaggio gentile e disponibile, ma a volte anche crudele nei confronti di Rick Vigorous, suo amante che letteralmente la idolatra, crudele perché nella tutela della sua più totale libertà si rifiuta costantemente di dare conferme all'amato del suo amore, mai una volta pronuncia quello che sente nei suoi confronti e altresì sfugge a qualsiasi classificazione del loro rapporto. Anche per questo Lenore mi sembra una persona reale: qualcuno i cui pensieri e sentimenti più intimi sfuggono anche al controllo dell'autore, nonchè dio dell'opera. Rick Vigorous è un personaggio che muta all'interno del romanzo, ma non progredisce, anzi: man mano che si va avanti la parabola della sua stabilità mentale precipita inesorabilmente verso il collasso a raggiungere gli apici negativi della paranoia. Egli è infatti ossessionato da Lenore, vorrebbe possederla per colmare anche (supposizione mia) i suoi complessi di inferiorità derivanti dalla sua conformazione fisica non proprio ideale, come si autodescrive il personaggio infatti:
"So di essere alquanto nevrotico. So di essere possessivo. So di essere capriccioso e vagamente effeminato. Privo di mento, non alto né robusto, roso da una calvizie ormai non più solo incipiente [...] e altresì so di essere inadeguato sessualmente"
Qui è di dovere precisare che l'intero libro è disseminato di personaggi folli o assurdi, e di psicologi che sono più folli ed assurdi dei loro pazienti, che a mio avviso costituisce una critica non molto velata dell'albo degli psicanalisti in genere come fenomeno esploso in quegli anni. Infatti sembrava che chiunque in America avesse uno psicanalista, a quiei tempi.
Inoltre, quello che mi ha sorpreso nel leggere le numerose recensioni sul web del libro non fanno menzione della dimensione assurda che sconfina nel fantastico nel contesto del romanzo: a partire dal fatto che Cleveland è stata ricostruita sulle forme dell'attrice Jayne Mansfield, poi dalla costruzione del DIO (Deserto Incommensurabile dell'Ohio), in inglese GOD (Great Ohio's Desert) voluta dal governatore della città perché fosse "un punto di riferimento primordiale per le buone genti dell'Ohio. Un luogo da temere e amare. Un luogo selvaggio. Qualcosa che ci rammenti contro cosa abbiamo lottato e vinto. Un luogo senza centri commerciali", ma poi anche solo dall'ombra che ogni giorno fagociata il palazzo in cui lavora Lenore, la cui descrizione è così reale da poterla paragonare ad un essere vivente, oppure l'uccellino di Lenore Vlad L'Impalatore che di punto in bianco comincia a parlare, ripentendo in maniera ragionata e a volte non precisa le diverse frasi che ha sentito (grazie a un misterioso composto scoperto dalla ditta del padre di Lenore), commentando così in maniera ironica ciò che sta capitando in quei frangenti.
L'ironia e il vero e proprio sarcasmo dominano l'intera scena, non si può leggere il libro senza "slogarsi la mascella dal ridere" come disse una volta un mio amico, è un'ironia dissacrante, irrispettosa, per niente "politically correct", che fa sentire anche un po' in colpa menre si ride sguaiatamente delle sventure altrui e che è la cifra stilistica dell'autore. In un'intervista riportata su Minima&Moralia ha dichiarato:

"nella mia famiglia funziona molto così. Fra noi comunichiamo quasi soltanto tramite battute di spirito. Fondamentalmente, non facciamo altro che raccontarci barzellette, il che a un certo punto diventa abbastanza strano. È molto divertente quando sei piccolo, ma quando ti ritrovi adulto e cerchi di parlare di qualcosa di serio, ti rendi conto che è un modo un po’ insidioso di affrontare le cose."

Ed è esattamente come comunica Lenore: non dice quasi mai le cose direttamente, le allude, ci gira intorno, fa battute per farle capire.
La stessa ironia la usa per mettere sotto accusa l'intero sistema culturale contemporaneo. Poco sopra l'ho definito uno scrittore "postmoderno", e in effetti nel suo romanzo vi sono molte di queste caratteristiche, compresa la presenza quasi ossessiva della televisione, ma in questo caso la sua non è una mera presentazione del fenomeno, ma (a mio avviso) una feroce accusa contro la cultura di massa e in particolare contro gli show televisivi interessati solo al profitto e per nulla ai contenuti. Ma ancora più violenta è le critica verso le istituzioni religiose, brillantemente resa a mio avviso con la speculazione da parte di una sedicente comunità religiosa (fornita ovviamente di show televisivo) sul povero e troppo chiaccherino Vlad L'Impalatore innalzato a messaggero di Dio e a cui durante lo show si cerca di far dire ai telespettatori "tutte le offerte sono detraibili dalle tasse", il ché è a mio avviso esilarante ma anche ferocemente coraggioso.
Oltre a questo il romanzo presenta anche una dilatazione temporale, e una moltiplicazione di universi che lo fa aderire allo stile del postmoderno: si vedano ad esempio le numerose storie che Rick racconta a Lenore che amplificano i significati del racconto e semplicemente ne disperdono la dimensione spazio-temporale, restituendoci la dimensione della vita vera, e sviluppando quel "realismo isterico" (come giustamente afferma nell'introduzione Stefano Bartezzaghi), che sarà caro a De Lillo e J.C. Oates.
Non ho voluto soffermarmi sulla trama per non svelare troppo del romanzo e lasciare che la curiosità di leggerlo rimaga viva in voi!
Al termine di questo estenuante excursus,
Vi lascio e vi auguro una buona lettura!

Mettiamo che Nonna mi abbia detto in maniera parecchio convincente che tutto ciò che davvero esiste della mia vita è limitato a quello che se ne può raccontare. [...] Be', credo che non sia esattamente che la vita va raccontata anziché vissuta; è piuttosto che la vita è il suo racconto, e che in me non c'è niente che non sia o raccontato o raccontabile. Ma se è davvero così, allora che differenza c'è, perché vivere?

Maria Cozzupoli




venerdì 27 settembre 2013

La narrazione necessaria


Disegno: Matticchio
Siamo tutti bramosi di storie, chiunque: anche il più arido economista o il più scettico ingegnere ricerca storie fuori di sé per dare un senso alla propria esistenza. Non ho ancora incontrato qualcuno che non abbia fatto suo un motto o un modo di dire; e cos'è un modo di dire se non una storia assunta a verità universale? Allora mi fa ridere chi ci guarda con il sorriso sotto i baffi e l'espressione paternalistico-condiscendente perché abbiamo la passione per le storie, la letteratura, il cinema, l'arte e così via, affermando così che il nostro studio sia "inutile", una spesa per lo Stato a cui potrebbe rinunciare. Ma potrebbe un essere umano rinunciare a nutrirsi? No, e nello stesso modo potrebbe rinunciare a pensare? Nemmeno, pensando noi creimano storie, ce la raccontiamo, semplifichiamo la realtà tramite quadri e matrici. La narrazione non solo è necessaria, ma anche inevitabile! La letteratura è perciò la vita stessa. Noi esistiamo in quanto racconto (Direbbe Lenore di David Foster Wallace) e se ci si riflette un momento questa è la pura verità. Mi spiego meglio: il nostro pensare è discorso, la conoscenza è piegata alla parola, ciò che vediamo, percepiamo, agiamo è determinato da un universo formato da parole e racconti, per cui la nostra stessa esistenza si definisce tramite la narrazione che facciamo di noi stessi. 
Come mai più volte è stata dichiarata la morte del romanzo senza che questa sia mai effettivamente avvenuta? Perché noi, esseri umani per vivere abbiamo bisogno di narrare e fagocitare storie che ci aiutino a comprendere la complessità del mondo.
Perché secondo voi vanno così di moda le citazioni degenerate, talvolta attribuite a persone o riportate in maniera erronea e denaturate dal contesto di origine? Perché alle persone non interessa chi o come abbia detto un qualcosa se quel qualcosa ha e dà un sigificato ad un evento della loro vita. 
Noi appassionati di letteratura non siamo molto diversi dagli psicologi, dai filosofi o dagli scienziati: tutti cerchiamo di comprendere la realtà con i diversi strumenti che abbiamo a disposizione, ma dal momento che la realtà è troppo grande rispetto a questi mezzi, ognuno di noi ha un mestiere "inutile", seppur necessario.

Maria Cozzupoli

martedì 24 settembre 2013

Gatsbies! Excursus 1974-2013



Nel 1974 Francis Ford Coppola scrisse la sceneggiatura per la trasposizione del Great Gatsby diretto da Jack Clayton. Nel 2013, invece Baz Luhrmann presenta al festival di Cannes la sua nuova versione di Gatsby nata, secondo quanto rilasciato in un’intervista in quella sede, dalla riscoperta del capolavoro della letteratura americana avvenuta una decina di anni fa.
Il film di Clayton si apre sulla dimora vuota di Gatsby, sulla ricchezza barocca e sterile dei suoi oggetti. La solitudine di quelle stanze è come se facesse presagire quello che avverrà alla fine: le numerose e folli feste organizzate da Gatsby svaniranno nel vuoto dopo la sua morte, e la sua ricchezza, lo sfarzo saranno solo oggetti abbandonati poiché Gatsby è un personaggio tragicamente solo, che non riuscirà mai ad avere degli affetti autentici, a parte quello di Nick il narratore della storia.
Il Gatsby del 1974 ha il pregio di aver ricostruito in maniera accurata lo spirito e l’ambientazione degli anni venti, e di aver cercato di attuare una trasposizione praticamente “totale” del capolavoro di Fitzgerald mantenendo alcuni dialoghi e la sequenza narrativa praticamente intatta, se si fa eccetto per alcuni particolari o per la storia tra Nick e Jordan, praticamente assente sulla pellicola. Forse questo tentativo di rendere per intero il romanzo ha l’effetto di rallentare e dilatare la narrazione, in modo tale da provocare insofferenza nello spettatore. Inoltre la soluzione di restituire la voce narrante con la voce fuori campo di Nick, risulta un po’ pesante e fin troppo invadente nell’economia del racconto.
Anche la scelta e l’interpretazione degli attori ha i suoi aspetti positivi e negativi. In primo luogo, la scelta di Mia Farrow è stata molto pertinente, sia come struttura fisica, sia per la recitazione che restituisce il suo personaggio in maniera fine e fedele; riesce a trasmettere la sua aria di inconsapevolezza nei confronti della vita, la sua inanità nell’azione: il lettore e lo spettatore ha la continua sensazione che Daisy sia trasportata dagli eventi, ed è incapace di prendere una decisione che sia in favore di qualcun altro, accecata dal suo egoismo e dal bisogno di stabilità economica ed emotiva. Viene infatti chiamata “la ragazza d’oro”, non solo a mio avviso, perché ha sposato uno degli uomini più ricchi d’America, ma perché il denaro, l’oro è l’unico propulsore per le sue scelte. Infatti Daisy si concede a Gatsby e decide di intraprendere una relazione amorosa con lui perché finalmente è diventato miliardario, ma non è così sicura di voler abbandonare il suo sicuro nido d’oro, soprattutto nel momento in cui scopre che Gatsby non è altro che un gangster che si è arricchito con l’inganno.
La scelta di Robert Redford, invece, per quanto fisicamente aderente alla descrizione del personaggio, lascia perplessi per l’interpretazione di Gatsby. Di lui infatti, gira la voce che abbia ucciso un uomo, che si sia fatto strada per non aver avuto scrupoli, quindi si immagina che sia un uomo volitivo, forte e pieno di presenza fisica. Redford, invece, appare come un uomo efebico, debole, e la passione che prova per Daisy, l’ossessione che ha spinto il personaggio a costruire quel paradiso roccocò di denaro per conquistarla, sembra essere meno struggente, quasi fosse una sorte inevitabile cui si sia dovuto adeguare perché non poteva fare altrimenti.
La scelta, invece, del personaggio di Wilson interpretato da Scott Wilson, rende perfettamente l’immagine dell’inetto che viene disprezzato dalla moglie perché non può offrile la vita che invece le fa vivere Tom; che infine impazzisce per il dolore della sua morte, poiché autenticamente innamorato di lei.
Nel complesso il film, per quanto fedele in molte sue parti, non riesce a restituire la struggente drammaticità di Gatsby, in primo luogo, e nemmeno la vacuità ed effimera atmosfera di quegli anni, che dapprima incuriosisce Nick e che poi finisce per disgustarlo, tanto da essere costretto a tornarsene nell’Ovest. Per lui, infatti l’Est rappresenta la dissoluzione e l’assoluto egoismo dei ricchi che distruggono le cose e poi pretendono che siano gli altri a ripulire.
Nella versione di Luhrmann, si ha pure il tentativo di adattare completamente la pellicola al romanzo, attraverso la ricostruzione della trama in maniera ancora più precisa della versione precedente, escludendo solo qualche episodio per accentuare l’effetto drammatico della scena. Anche qui è stata utilizzata la voce narrante fuori campo di Nick, che è ancora più esasperante e invadente della versione del 1974, perché commenta e spiega le situazioni che scorrono sullo schermo come se lo spettatore non avesse gli strumenti critici per comprendere una sequenza narrativa.
L’operazione che compie Lurmann è quella di rendere il capolavoro di Fitzgerald in chiave post-moderna introducendo colori sgargianti, ambientazioni costruite con la grafica digitale, e l’utilizzo di musiche moderne nella diegesi della storia, creando così un effetto straniante su quello che lo spettatore vede: cioè una storia ambientata negli anni venti, accompagnata con la musica che ascolta tutti i giorni.
Con questa tecnica, Luhrmann cerca di estremizzare i temi del romanzo: così la sfrenatezza di quegli anni e la ricchezza poco raffinata di Gatsby si trasformano in feste esagerate al ritmo del rap di Jay-Z, Beyoncè e will.i.am, che secondo la mia opinione, più che scena da film sembrano essere i video clip delle canzoni. Il problema della scelta della musica qui è che invece di avvicinare lo spettatore a quel mondo utilizzando le musiche che conosce, si ottiene invece un effetto di allontanamento e straniamento nella scarsa verosimiglianza dell’ambientazione storica. L’operazione di modernizzazione che lo stesso autore aveva operato sul suo capolavoro Romeo+Juliet, era stato un lavoro radicale e sicuramente molto più riuscito di questo: lì, infatti l’intera tragedia shakespeariana viene ambientata ai giorni nostri, e quindi l’utilizzo di soluzioni modernizzanti non viene percepito come un errore agli occhi dello spettatore. Nel Grande Gatsby invece, la smania di sorprendere, coinvolgere e stupire, finisce in un salto nel vuoto e le parti che avrebbero dovuto essere le più spettacolari, a mio avviso, sono le più ridicole e prive di forza. Forse perché ormai, lo spettatore del 2013 è abituato ai video clip spettacolari, e di certo non viene sorpreso dagli spettacoli pirotecnici di Luhrmann.
Quello che stona ancora maggiormente sono le ambientazioni fantastiche in cui immerge la storia: la villa di Gatsby si trasforma. in un castello delle fiabe, disegnato tramite grafica digitale, e arredato all’interno come una villa moderna; il prato che avrebbe dovuto condurre la villa alla casetta di Nick diventa un surrogato della foresta Amazzonica. L’esagerazione punta, ovviamente ad ingigantire la ricchezza e lo sfarzo in cui viveva Gatsby per sottolineare quanto amore provasse per Daisy che lo ha spinto a costruire tutta questa magnificenza pacchiana. Oltre alla musica e alle ambientazioni, Lurhmann introduce paradossi storici: ad esempio inserisce un gruppetto di riccastri di colore che girano per la città a bordo di un’auto guidata da un autista bianco, oppure usa come dive delle feste delle ballerine anch’esse di colore, quando all’epoca non era permesso loro di stare al di fuori dello spazio domestico, come serve.
Premesso quindi, che nel caso del Grade Gatsby la trasformazione della storia in chiave post-moderna, a mio avviso, non ha restituito lo spirito dell’epoca; invece la scelta di Leonardo di Caprio come interprete di Gatsby si è rivelata la più riuscita. Di Caprio si dimostra essere un talento magistrale e qui riesce a restituire tutte le contraddizioni di Gatsby: è un uomo forte e senza scrupoli che è riuscito a crearsi una posizione favorevole dal nulla, anche se per realizzare il suo sogno americano è dovuto ricorrere alla carriera criminale; nello stesso tempo è colui che è stato spinto a tutto questo dall’amore di una ragazza frivola e senza veri sentimenti. In mezzo a tutti coloro che partecipavano alle sue feste perché erano mondane, e ai suoi collaboratori che lo rispettavano e lo cercavano finché hanno potuto ricavarne guadagno, lui era l’unico con dei sentimenti puri, con la forza romantica della speranza. Ed è per questi sentimenti buoni e per il candore che conserva nonostante sia invischiato in traffici loschi, che Nick si lega molto a lui ed afferma che lui sia migliore di tutti gli altri messi insieme. Leonardo di Caprio riesce ad impersonare tutte queste contraddizioni: riesce ad essere l’uomo aggressivo e pieno di passione durante la discussione con Tom in albergo, e l’uomo fragile ed insicuro che chiede il parere di Nick su se stesso durante ila loro traversata in macchina, riesce ad essere l’uomo la cui intera vita dipende da un cenno o da un apparente sentimento provato da Daisy.
La scelta degli altri attori non appare tanto oculata: Daisy interpretata da Carey Mulligan, non restituisce la frivolezza e le contraddizioni della Daisy su carta, è un personaggio piatto e senza rilevanza scenica. Il Tom interpretato da Joel Edgerton, invece risulta essere molto pertinente sia alla descrizione fisica, perché è un uomo forte e prestante, sia alla descrizione psicologica come forte, irascibile e volubile.
Nemmeno questa versione cinematografica restituisce appieno lo spirito profondo del romanzo. Il pensiero che ho formulato in merito è che forse il capolavoro di Fitzgerald, nonostante le sue velleità cinematografiche, rimane un oggetto così complesso e perfetto nella forma in cui è stato confezionato che una sua trasposizione perfetta non è possibile senza cadere nel banale o nel ridondante.

Maria Cozzupoli

lunedì 23 settembre 2013

Le tue parole erano uomini

Le fate Ignoranti_Ferzan Ozpetek (2001).

Attenzione: la seguente recensione contiene SPOILER sulla trama del film

Mi è capitato di rivedere Le fate Ignoranti di Ferzan Ozpetek. Credo sia il suo film più bello, quindi questa non sarà una recensione degna di essere pubblicata su qualche rivista perché ho appena infranto la prima regola del buon recensore: non dire mai questo film è bello questo film è brutto e così via.
Credo comunque che sia il suo film più bello, per varie ragioni. Ozpetek è stato criticato in passato per la presenza costante del "cliché"(messo tra virgolette perché non concordo sul pensiero) dell'omosessualità. Non sono naturalmente d'accordo su questo giudizio perché l'abilità di Ozpetek sta proprio nel ridarci l'amore in maniera inedita, sorprendente. Nella sua visione l'amore non conosce sesso né sessualità precisa, trascende tutto, ed è anche spesso qualcosa che si vive per poco tempo e poi lo si rimpiange per sempre.
Michele e Antonia entrano l'uno nella vita dell'altra nel peggiore dei modi possibili e nel momento di disperazione totale: Massimo l'amore della loro vita è morto, vedova del marito lei e del fidanzato lui, il ponte che li teneva separati ma collegati indissolubilmente, si spezza e loro si schiantano frantumando la fragile mebrana che separava le loro vite.
Antonia scopre sul retro di un quadro, chiamato Fata Ignorante, la dedica del fidanzato Michele che cita : 

"A Massimo per i nostri sette anni insieme, per quella parte di te che mi manca e non potrò mai avere, per tutte le volte che mi hai detto non posso, ma anche per quelle in cui mi hai detto ritornerò! Sempre in attesa, posso chiamare la mia pazienza 'amore'?". 

Già da queste brevi parole si coglie il senso di attesa, privazione, speranza e di amore che sempre agogna di essere totale ma viene ristretto nei limiti imposti dall'esterno.
Con lo scorrere della pellicola, Antonia scopre del doppio tradimento del marito, che non solo aveva un amante, ma anche che quest'ultimo fosse un uomo. Il che svela un mondo della vita interiore di Massimo completamente ignoto a lei che si sente tradita e crede di non conoscere più la persona che ha amato per tutta la vita. Antonia è ancora più sconvolta poi nell'apprendere che Massimo condivideva anche con Michele una vita intera, insieme agli amici di Michele, alcuni condomini altri no, tutti gay, tranne le donne.
Tra Antonia e Michele, c'è una curiosità e un'attrazione sempre più forte. Inizialmente si odiano per il reciproco furto di piccoli pezzi di Massimo, ma poi questo sentimento di odio sembra frantumarsi a poco a poco; una sera in cui lei mangia insieme alla compagnia di Michele verso la fine le racconta di come lui e Massimo si fossero incontrati: lui amava moltissimo Nazim Hikmet (come colei che scrive) e quel giorno stava cercando l'ultima edizione della sua opera completa e anche Massimo, la coincidenza li soroprese e da lì cominciò la loro storia. Solo dopo sette anni Michele scopre che la appassionata di poesia era Antonia, non Massimo e quello era un regalo per il loro anniversario. "Massimo non sapeva nemmeno chi fosse Hikmet" afferma Antonia con una nota di malinconia. A mio avviso Michele e Antonia sono due facce della stessa medaglia, l'uno la versione maschile dell'altra e viceversa. Sono simili ma opposti. Ho pensato che i due fossero anime gemelle. Infatti tra loro nasce un amore che trascende la sessualità di Michele, naturalmente questo non è rivelato, ed è questa una delle caratteristiche di Ozpetek che amo di più: riesce a dire moltissime cose senza spiegarle apertamente attraverso l'uso di guardi, riprese, commenti musicali. Senza che nessuno dei personaggi dica realmente cosa provi o pensi, emergono dal tutto di senso frammenti di verità ambigui, che possono essere facilmente interpretabili in modi diversi dal mio
Vorrei poi soffermarmi un momento sulla figura di Ernesto, malato di AIDS perchè amava così tanto il suo Emanuele che, afferma "volevo tutto di lui, anche la malattia", ed è una delle figure struggenti e rappresenta un leitmotiv ricorrente, onnipresente anzi, nell'opera di Ozpetek ovvero quella dell'amore perso e per sempre poi sospirato: i personaggi che non possono amare chi realmente vogliono a causa di eventi esterni come Giovanna ne la Finestra di fronte, o la Nonna in Mine Vaganti, le due condividono il rimpianto, ecco solo il rimpianto, struggente, angosciante, di un amore, e di aver passato una intera vita voltate all'indietro pensando ad esso. Ernesto condivide con queste la nostalgia dell'amore, poiché nonostante abbandonato da Emanuele non si dà pace, solo quando scopre che in realtà Emanuele non l'aveva lasciato ma era morto di AIDS, Ernesto riprende un po' di fiducia nella vita e accetta di viverla, rincuorato del fatto che i due si fossero amati realmente e  non fosse il solo ad abiare nei ricordi del loro amore.

Emblematico in questi passaggi il simbolo del bicchiere, qui viene detto, infatti, che secondo un detto turco quando cade dalle mani di qualcuno un bicchiere e si rompe, significa che egli ha perso la persona amata, e ad Ernesto cade il bicchiere che aveva in mano per brindare al ritorno di un amico Samir, causa anche della crisi nella nuova "coppia" Michele-Antonia. Infatti i due in qualche modo consapevoli di questi sentimenti vi reagiscono in maniera opposta: Michele scappa da lei finendo in un ménage a trois formato da due uomini oltre lui, Antonia invece cerca di fare un passo verso Michele regalandogli il famoso libro di Hikmet. Quando Antonia vede questo simbolico tradimento che si consuma sotto i suoi occhi, accetta di scappare in giro per l'Europa con Samir, cosa che poi non farà perché deciderà di viaggiare da sola.
Significative le parole di Michele come commiato d'addio ad Antonia: 
"Che stupidi che siamo... Quani inviti respinti, quanti sguardi non ricambiati, quante parole non dette. Molte volte la vita ci passa accanto e noi non ce ne accorgiamo nemmeno."
Che possono essere viste sia come il rimpianto di non aver vissuto appieno la sua soria con Massimo, sia la presa di coscienza che Antonia gli stia sfuggendo via senza che lui possa, o riesca a fare nulla per impedirglielo.
Credo anche che questo film sia uno dei pochi suoi con un lieto fine (sebbene sempre velato e con un'interpretazione aperta), perchè sempre nella scia del simbolismo, Michele, solo e pensoso lascia cadere il bicchiere da cui ha appena bevuto, nel frattempo immagini di Antonia che imbocca le scale mobili dell'aereoporto, e poi il bicchiere che tocca il suolo e non si rompe...

Vi lascio con le parole della poesia di Hikmet citata nel film.

 Le tue parole erano uomini
In questa notte d'autunno
sono pieno delle tue parole
parole eterne come il tempo
come la materia
parole pesanti come la mano
scintillanti come le stelle.
Dalla tua testa, dalla tua carne
dal tuo cuore
mi sono giunte le tue parole
le tue parole, madre
le tue parole, amore
le tue parole amica
Erano tristi, amare
erano allegre, piene di speranza
erano coraggiose, eroiche
le tue parole 
erano uomini.
Nazim Hikmet




A presto
Marì

venerdì 20 settembre 2013

Svarioni del Venerdì

E' strano... Ho notato che inizio la maggiorparte dei miei abbozzi di romanzi o racconti, con qualcuno che si sveglia. Ed è sempre uno svegliarsi in maniera traumatica e sofferta! Sarà forse una parte inconscia di me che mi sta dicendo: svegliati!? Nel caso di Marina del racconto precedenteme è NECESSARIO che si svegli, o forse no? Fose dovrei ampliare i miei orizzonti e fare iniziare i miei racconti con qualcosa di più divertente, chessò un caduta dalle scale, una figura di cacca, una ragazza che dice fesserie... Ah no quella è la mia vita!

giovedì 19 settembre 2013

Alzare la testa alla violenza




Questa mattina ho letto un articolo di Davide De Luca, I veri numeri sul femminicidio, che mi ha indignata e non perché dica cose completamente sbagliate, ma perché opera una azione manipolatoria e fuorviante sull'endemico fenomeno del femminicidio.
Partendo dalla critica già fatta a questo articolo, ovvero che il femminicidio in antropologia è ben diverso dal femicidio, in quanto quest'ultimo concerne lo stadio estremo e ultimo di violenza sulla donna ovvero l'omicidio; mentre il femminicidio comprende tutti i tipi di violenza, discriminazione e persecuzione di una donna "in quanto donna", per violenza si intende sia quella fisica che quella psicologica. La definizione "In quanto donna" può sembrare sibillina e fuggevole, non chiara di comprensione. Voglio ovviare prontamente a questa difficoltà affermando che si definisce violenza di genere quella perpetrata da un uomo sulla donna perché in qualche modo questa fugge dal ruolo affibbiatole dalla nostra cultura basata sul patriarcato, oppure si picchia una donna perché nella nostra società un marito ha diritto quasi di proprietà sulla moglie, ma non è vero il contrario.
L'articolo citato afferma che il femicidio (uso qui il termine corretto) non sia un fenomeno che si possa definire di emergenza e che molti giornali strumentalizzino i femicidi per ricavarne titoli da prima pagina. Sul primo punto, ovviamente, non sono del tutto d'accordo. E' vero, secondo le statistiche i femicidi non sono in aumento, ma se consideriamo il fatto che la donna nella nostra cultura e in tutte le culture patriarcali viene sottomessa dagli albori della cultura, questo non si trasforma subitamente in un sopruso radicato nella nostra società, e quindi un cancro che è necessario debellare? Sono altresì d'accordo sul fatto che i FEMICIDI siano un fenomeno costante, ma parliamo dei femminicidi, invece, ovvero la violenza domestica, gli stupri, le violenze intrusive, le minacce. Vorrei ricordare al giornalista che dal rapporto Istat del 2007, sono state 74000 le donne a subire in Italia violenza sessuale nell'anno 2006, di cui il 94% non ha denunciato la violenza subita e di cui ancora, il 69% ha subito gli abusi da parte del partner.
Per cui è vero i femicidi non fanno notizia, ma la violenza di genere sì, ed è giusto che se ne parli. L'utilizzo improprio di dati per scrivere titoli da prima pagina e vendere molto di più è un giochetto noto, ed è esecrabile, ma se questi titoli servono almeno un po' a sensibilizzare la popolazione, non vedo quale sia il crimine.
Con questo non voglio assolutamente giustificare i media che tirano su polveroni su inezie, e inoltre credo fermamente che i giornali siano anch'essi stessi portatori della mentalità patriarcale. Infatti, quello che al giornalista sfugge è che questi numerosi titoloni non fanno altro che drammatizzare nel vero senso della parola i fatti accaduti, rendendo l'uomo che ha commesso l'omicidio come un eroe tragico e attirando su di lui una certa simpatia da parte del lettore.
Definendo questi omicidi come "passionli", infatti, si sottende che queste furie omicida non siano state premeditate e che fossero inevitabili per il "troppo amore" dell'uomo che non si fa una ragione di essere abbandonato. Se poi in tutto ciò l'uomo compie anche l'atto estremo di uccidersi, allora il pranzetto succulento su cui si scagliano i giornalisti per scrivere tragedie greche è servito!
Mio caro De Luca, quindi tutta questa emergenza per le donne non la vedo, io. Io vedo tentativi di drammatizzare la realtà, renderla quasi come una storia raccontata, lontana dal quotidiano e rassicurare noi tapini che questo tipo di vicende straordinarie accadano soltanto nelle meravigliose storie narrate dei giornali.
L'articolo di De Luca è fuorviante e sottende senza molti giri di parole che il femicidio non sia degno di essere descritto, che non vi sia alcun problema in merito. Ecco che il potente diniego delle istituzioni prende voce da un personaggio che crede di essere il più furbo a svelare le mirabolanti tecniche di vendita giornalistica.
Il signor De Luca si è reso vittima della nostra stessa società e, convinto di essere lui il baluardo della verità, non fa altro che portare avanti la manipolazione di massa che da secoli schiaccia la donna sotto il dito accusatore, giudice e violento dell'uomo.
Maria Cozzupoli