venerdì 30 agosto 2013

Marina



Marina è uno di quei personaggi che mi frullano nella testa da parecchio tempo. Mi piacerebbe poter dire che sia un mio alter ego, ma la verità è che lei rappresenta quello che intimamente vorrei essere e che solo talvolta sono. E' una piccola sfaccettatura di me, un riflesso che a volte catturo allo specchio come Vitangelo Moscarda di Uno, Nessuno, Centomila, ma che poi svanisce nel momento in cui la metto a fuoco. Vi offro qui le prime righe di quello che diventerà un romanzo o un racconto, ancora non so, e per maggiorni informazioni su Marina, vi rimando qui:
Marina
Marina
Marina si svegliò in una camera d’hotel arruffata e scarmigliata, i capelli sembravano un groviglio di fiamme esploso nell’accecante visione delle lenzuola bianche accartocciate che l’avvolgevano completamente.
Si tirò su a sedere spaesata: la luce le faceva strizzare gli occhi, e alla sua destra, non c’era il corpo caldo di Massimo, il suo fidanzato. Erano arrivati a Dublino la sera prima per una conferenza su Joyce: entrambi professori universitari, lui di letteratura inglese e lei di americana, seguivano spesso conferenze in giro per l’Europa insieme.
Con la testa ancora pesante, scese dal letto e si sedette sulla scrivania della camera per preparare la caraffa elettrica con il tremendo caffè che ne sarebbe sgorgato da lì a pochi minuti.
Nell’attesa, Marina cominciò a cercare i giro per la stanza qualche segno, un biglietto, magari lasciatole eventualmente da Massimo, nel remoto caso in cui lui si fosse preoccupato di avvisarla della fuga. Nulla. Non sul letto, né sul cuscino, né nella doccia, né nel portacarte standard gentilmente omaggiato dal Trinity College Campus, come suona altisonante, eh? Sì effettivamente sembrava di trascorrere le vacanze a palazzo più che seguire una conferenza letteraria,vi era un’enorme distesa di acciottolato grigio delimitato da palazzi in stile neoclassico bianchi, e al centro un arco con il campanile, che pareva quasi di trovarsi nel cortile di un monastero, più che in un’università.
L’improvvisata detective, che incominciava a riversare nel panico, non aveva trovato nulla. Strano. Una prova era evidente, però, anche se non ai suoi occhi al momento annebbiati: i vestiti di lui erano ancora lì: ordinatamente piegati sulla sedia, la valigetta ventiquattrore con gli appunti dell’intervento che avrebbe dovuto tenere da lì a poche ore, era intonsa, il portafogli e le chiavi della camera ancora nel cassetto della scrivania. Possibile che Massimo si aggirasse solo con i boxer e una maglietta sgualcita dal sonno per un campus universitario? No. Eppure Marina decise di spegnere la terrificante (per un’italiana) caraffa elettrica, indossare un paio di jeans e con la maglietta del pigiama addentrarsi nei lunghissimi corridoi di marmo, vuoti, gelidi e spenti, alle sette del mattino di quel 4 settembre.
Correva leggerissima come un fantasma in quel corridoio senza fine, non aveva fatto in tempo ad indossare nemmeno il reggiseno, presa dalla sensazione sempre più corporea che fosse successo qualcosa di terribile a Massimo.
Quando arrivò alla grande hall del campus, c’erano gruppi di professori in piccoli gruppetti che discutevano con fogli alla mano e occhiali calcati sulla punta del naso. Vi era un brusio concitato e quando Marina entrò trafelata nella stanza, solo alcuni si accorsero di lei guardandola con espressioni incuriosite e sfacciate nello sgomento.
Marina, come in preda al sonnambulismo, vagò nella stanza per qualche momento, poi riprendendo coscienza di sé cominciò a chiedere in inglese se avessero visto il suo ragazzo. Sì, d’accordo uomo, quasi tutti lo conoscevano di fama, ma nessuno o quasi l’aveva mai visto: è alto all’incirca un 1.85, capelli brizzolati, di una strana sfumatura argentea- che senso avesse soffermarsi sui dettagli in quel momento non se lo sapeva spiegare- occhi blu scuro, naso importante, fisico asciutto, quasi rachitico a dire il vero, voce calda, erre moscia. Qualcuno l’aveva visto? Non poteva essere sparito da molto!
I professori si avvicinarono come ad inglobarla e si misero cerchi concentrici attorno a lei, così che nella sua confusione poteva scorgere visi quasi identici che parlavano contemporaneamente e nel chiasso creatosi, le parve di non udire più nulla. In quegli attimi di solitudine forzata per non soccombere ad un tale assalto, Marina socchiuse gli occhi, e con il volume portato allo zero nelle orecchie, venne investita da una serie di immagini confuse, come di sogno: immagini bluastre della camera d’albergo, la sensazione che delle mani forti e ricoperte di peluria l’avessero afferrata forte, strattonata, portata via di peso, forse anche la voce calda di Massimo, in quel momento rotta dalla paura che urlava. Poi in un momento, come uno schianto, riprese ad udire quelle parole forti dei professori, che la trivellavano di domande. E tra i volti riconobbe quello di Amilcar Romero, capo dipartimento di letteratura inglese all’università di Madrid, unico volto amico in quella panacea di esaltati.