
Il film di Clayton si
apre sulla dimora vuota di Gatsby, sulla ricchezza barocca e sterile dei suoi
oggetti. La solitudine di quelle stanze è come se facesse presagire quello che
avverrà alla fine: le numerose e folli feste organizzate da Gatsby svaniranno
nel vuoto dopo la sua morte, e la sua ricchezza, lo sfarzo saranno solo oggetti
abbandonati poiché Gatsby è un personaggio tragicamente solo, che non riuscirà
mai ad avere degli affetti autentici, a parte quello di Nick il narratore della
storia.
Il Gatsby del 1974 ha il pregio di aver ricostruito in maniera
accurata lo spirito e l’ambientazione degli anni venti, e di aver cercato di
attuare una trasposizione praticamente “totale” del capolavoro di Fitzgerald
mantenendo alcuni dialoghi e la sequenza narrativa praticamente intatta, se si
fa eccetto per alcuni particolari o per la storia tra Nick e Jordan,
praticamente assente sulla pellicola. Forse questo tentativo di rendere per
intero il romanzo ha l’effetto di rallentare e dilatare la narrazione, in modo
tale da provocare insofferenza nello spettatore. Inoltre la soluzione di
restituire la voce narrante con la voce fuori campo di Nick, risulta un po’
pesante e fin troppo invadente nell’economia del racconto.
Anche la scelta e
l’interpretazione degli attori ha i suoi aspetti positivi e negativi. In primo
luogo, la scelta di Mia Farrow è stata molto pertinente, sia come struttura
fisica, sia per la recitazione che restituisce il suo personaggio in maniera
fine e fedele; riesce a trasmettere la sua aria di inconsapevolezza nei
confronti della vita, la sua inanità nell’azione: il lettore e lo spettatore ha
la continua sensazione che Daisy sia trasportata dagli eventi, ed è incapace di
prendere una decisione che sia in favore di qualcun altro, accecata dal suo
egoismo e dal bisogno di stabilità economica ed emotiva. Viene infatti chiamata
“la ragazza d’oro”, non solo a mio avviso, perché ha sposato uno degli uomini
più ricchi d’America, ma perché il denaro, l’oro è l’unico propulsore per le
sue scelte. Infatti Daisy si concede a Gatsby e decide di intraprendere una
relazione amorosa con lui perché finalmente è diventato miliardario, ma non è
così sicura di voler abbandonare il suo sicuro nido d’oro, soprattutto nel
momento in cui scopre che Gatsby non è altro che un gangster che si è
arricchito con l’inganno.
La scelta di Robert
Redford, invece, per quanto fisicamente aderente alla descrizione del personaggio,
lascia perplessi per l’interpretazione di Gatsby. Di lui infatti, gira la voce
che abbia ucciso un uomo, che si sia fatto strada per non aver avuto scrupoli,
quindi si immagina che sia un uomo volitivo, forte e pieno di presenza fisica.
Redford, invece, appare come un uomo efebico, debole, e la passione che prova
per Daisy, l’ossessione che ha spinto il personaggio a costruire quel paradiso
roccocò di denaro per conquistarla, sembra essere meno struggente, quasi fosse
una sorte inevitabile cui si sia dovuto adeguare perché non poteva fare
altrimenti.
La scelta, invece, del
personaggio di Wilson interpretato da Scott Wilson, rende perfettamente
l’immagine dell’inetto che viene disprezzato dalla moglie perché non può
offrile la vita che invece le fa vivere Tom; che infine impazzisce per il
dolore della sua morte, poiché autenticamente innamorato di lei.
Nel complesso il film,
per quanto fedele in molte sue parti, non riesce a restituire la struggente
drammaticità di Gatsby, in primo luogo, e nemmeno la vacuità ed effimera
atmosfera di quegli anni, che dapprima incuriosisce Nick e che poi finisce per
disgustarlo, tanto da essere costretto a tornarsene nell’Ovest. Per lui, infatti
l’Est rappresenta la dissoluzione e l’assoluto egoismo dei ricchi che
distruggono le cose e poi pretendono che siano gli altri a ripulire.

L’operazione che compie
Lurmann è quella di rendere il capolavoro di Fitzgerald in chiave post-moderna
introducendo colori sgargianti, ambientazioni costruite con la grafica
digitale, e l’utilizzo di musiche moderne nella diegesi della storia, creando
così un effetto straniante su quello che lo spettatore vede: cioè una storia
ambientata negli anni venti, accompagnata con la musica che ascolta tutti i
giorni.
Con questa tecnica,
Luhrmann cerca di estremizzare i temi del romanzo: così la sfrenatezza di
quegli anni e la ricchezza poco raffinata di Gatsby si trasformano in feste
esagerate al ritmo del rap di Jay-Z, Beyoncè e will.i.am, che secondo la mia
opinione, più che scena da film sembrano essere i video clip delle canzoni. Il
problema della scelta della musica qui è che invece di avvicinare lo spettatore
a quel mondo utilizzando le musiche che conosce, si ottiene invece un effetto
di allontanamento e straniamento nella scarsa verosimiglianza
dell’ambientazione storica. L’operazione di modernizzazione che lo stesso
autore aveva operato sul suo capolavoro Romeo+Juliet,
era stato un lavoro radicale e sicuramente molto più riuscito di questo: lì,
infatti l’intera tragedia shakespeariana viene ambientata ai giorni nostri, e
quindi l’utilizzo di soluzioni modernizzanti non viene percepito come un errore
agli occhi dello spettatore. Nel Grande
Gatsby invece, la smania di sorprendere, coinvolgere e stupire, finisce in
un salto nel vuoto e le parti che avrebbero dovuto essere le più spettacolari,
a mio avviso, sono le più ridicole e prive di forza. Forse perché ormai, lo
spettatore del 2013 è abituato ai video clip spettacolari, e di certo non viene
sorpreso dagli spettacoli pirotecnici di Luhrmann.
Quello che stona ancora
maggiormente sono le ambientazioni fantastiche in cui immerge la storia: la
villa di Gatsby si trasforma. in un castello delle fiabe, disegnato tramite
grafica digitale, e arredato all’interno come una villa moderna; il prato che
avrebbe dovuto condurre la villa alla casetta di Nick diventa un surrogato
della foresta Amazzonica. L’esagerazione punta, ovviamente ad ingigantire la
ricchezza e lo sfarzo in cui viveva Gatsby per sottolineare quanto amore
provasse per Daisy che lo ha spinto a costruire tutta questa magnificenza
pacchiana. Oltre alla musica e alle ambientazioni, Lurhmann introduce paradossi
storici: ad esempio inserisce un gruppetto di riccastri di colore che girano
per la città a bordo di un’auto guidata da un autista bianco, oppure usa come
dive delle feste delle ballerine anch’esse di colore, quando all’epoca non era
permesso loro di stare al di fuori dello spazio domestico, come serve.
Premesso quindi, che
nel caso del Grade Gatsby la
trasformazione della storia in chiave post-moderna, a mio avviso, non ha
restituito lo spirito dell’epoca; invece la scelta di Leonardo di Caprio come
interprete di Gatsby si è rivelata la più riuscita. Di Caprio si dimostra
essere un talento magistrale e qui riesce a restituire tutte le contraddizioni
di Gatsby: è un uomo forte e senza scrupoli che è riuscito a crearsi una
posizione favorevole dal nulla, anche se per realizzare il suo sogno americano
è dovuto ricorrere alla carriera criminale; nello stesso tempo è colui che è
stato spinto a tutto questo dall’amore di una ragazza frivola e senza veri
sentimenti. In mezzo a tutti coloro che partecipavano alle sue feste perché
erano mondane, e ai suoi collaboratori che lo rispettavano e lo cercavano
finché hanno potuto ricavarne guadagno, lui era l’unico con dei sentimenti
puri, con la forza romantica della speranza. Ed è per questi sentimenti buoni e
per il candore che conserva nonostante sia invischiato in traffici loschi, che
Nick si lega molto a lui ed afferma che lui sia migliore di tutti gli altri
messi insieme. Leonardo di Caprio riesce ad impersonare tutte queste
contraddizioni: riesce ad essere l’uomo aggressivo e pieno di passione durante
la discussione con Tom in albergo, e l’uomo fragile ed insicuro che chiede il
parere di Nick su se stesso durante ila loro traversata in macchina, riesce ad
essere l’uomo la cui intera vita dipende da un cenno o da un apparente
sentimento provato da Daisy.
La scelta degli altri
attori non appare tanto oculata: Daisy interpretata da Carey Mulligan, non
restituisce la frivolezza e le contraddizioni della Daisy su carta, è un
personaggio piatto e senza rilevanza scenica. Il Tom interpretato da Joel
Edgerton, invece risulta essere molto pertinente sia alla descrizione
fisica, perché è un uomo forte e prestante, sia alla descrizione psicologica
come forte, irascibile e volubile.
Nemmeno questa versione
cinematografica restituisce appieno lo spirito profondo del romanzo. Il
pensiero che ho formulato in merito è che forse il capolavoro di Fitzgerald,
nonostante le sue velleità cinematografiche, rimane un oggetto così complesso e
perfetto nella forma in cui è stato confezionato che una sua trasposizione
perfetta non è possibile senza cadere nel banale o nel ridondante.
Maria Cozzupoli
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