venerdì 21 febbraio 2014

Visioni Marine


L’avrebbero trovata morta in un cilindro di vetro, immersa in un liquido giallastro.

Era sudata, i capelli appiccicati sulla fronte: una matassa aggrovigliata. Nel letto, accanto al lei il posto di Massimo era vuoto e un incubo di strattoni, aliti rivoltanti e unghie nella carne le ronzava ancora in testa.
Si alzò per cercarlo, ma nella stanza d’albergo in cui erano arrivati la sera prima tutte le sue cose erano a posto, mancava solo lui. Anche i vestiti erano piegati e disposti ordinatamente sulla sedia. L’immagine buffa di un Massimo che scorrazzava in mutande per l’albergo, la fece sorridere un attimo, poi con un’apprensione sempre più forte, infilò un paio di jeans, una maglietta e uscì dalla stanza.
Il poliziotto che perlustrò la camera confermò che non vi erano indizi che potessero far pensare a una terza persona. Massimo era scomparso e Marina, in una muta agonia continuava a sperare di vederlo apparire, come se nulla fosse, da dietro la porta della stanza. Tra meno di quarantotto ore avrebbe dovuto prendere il treno che l’avrebbe riportata a Roma, tuttavia, era fuori discussione che potesse tornare indietro se non lo avesse ritrovato.
Cominciò a frugare nei posti che lui amava di più a Torino, nel caso si fosse trattato solamente di una crisi e non qualcosa di peggio: la sala da tè in corso Moncalieri, il bar Torino, le panchine di fronte alla Mole. Nulla. Non trovò altro che posti vuoti.
Trascorse un tempo indefinibile, poi la vennero ad arrestare: avevano trovato il corpo di Massimo impigliato in un ramo fluttuante nell’acqua del Po. Al collo aveva segni di strangolamento, segni sottili di dita sottili. Incominciarono subito le indagini per omicidio, l’unica evidenza inconfutabile era la presenza di Marina nella stanza in cui era stato ucciso Massimo.
La cella in cui la misero insieme ad altre donne era gelida, umidiccia e grigia; le pareti le vorticarono intorno e un senso di soffocamento la sopraffece per un attimo. Poi rivide le sbarre grigie, ed era ancora imprigionata in una stanza buia nell’incertezza di quello che stava per capitare. La scortarono nell’aula di tribunale, il pubblico ministero era una donna dai capelli castani, tagliati sulle guance e un tailleur grigio canna di fucile.
Non si rese conto di come fosse finita sulla sedia dei testimoni, ma intorno a sé vide le sbarre di legno disposte in un semicerchio, che assomigliavano in maniera inquietante e ridicola ai podi di Forum in cui due attori pagati bisticciavano di fronte ad un giudice fasullo. Mentre pensava a questo, il pubblico ministero fece per avvicinarsi a lei, ma le sue mosse si bloccarono: uno strato bianco salì come un esercito invisibile dai piedi della donna fino a inglobarle prima le gambe e poi tutto il resto del corpo, la scena rimase pietrificata fino a che si ruppe in mille pezzi e il buio totale avvolse la mente di Marina.
Quando riaprì gli occhi, il bruciore glieli trafisse, allora li richiuse subito. Era immersa nell’acqua o così sembrava, non riusciva a respirare e si agitò cercando di far uscire di qualche centimetro la testa dall’acqua, solo piegando il collo poteva respirare in quei cinque centimetri di aria. Vaghi ricordi della nottata precedente riemergevano dal buio della sua mente. Ricordò il dolore lancinante di una spalla lussata, e il volto conosciuto di un uomo, che però adesso sfuggiva alla sua comprensione.
Pian piano che la coscienza tornava, il dolore alla spalla tornò in superficie, e doveva avere anche dei graffi sulla schiena. Non riusciva a vedere nulla e sentiva che i respiri si facevano sempre più inefficaci, l’aria scarseggiava e il pensiero di Massimo la investì come un pugno. Che fine aveva fatto?
Ricordava che la sera prima erano tornati dal ristorante un po’ alticci, lei era appoggiata allo specchio dell’ascensore con i tacchi in una mano e l’altra mano tra i capelli di Massimo, quando l’ascensore si fermò al loro piano e la figura di… Nulla non riusciva a far tornare alla mente il volto dell’uomo che li guardava dall’altra parte del corridoio, l’aveva riconosciuto, aveva già visto quello sguardo freddo, determinato, ostile, ma non riusciva più a connettere un pensiero con quello successivo, l’ossigeno stava terminando. I polmoni cominciarono a contrarsi in spasmi dolorosi.
«Devi affrontarla questa rabbia» risentì la sua voce risuonare nelle orecchie, ma non ne capiva il significato, si sforzò di nuovo ad aprire gli occhi, ma quello che vedeva erano solo ombre appannate, giallastre, fantasmi neri che si muovevano in uno sfondo che sembrava un obiettivo di una macchina fotografica.
Buio.
Sei mesi prima un paziente di Marina rischiò di affogare essendo stato sbalzato fuori dalla sua barca durante una tempesta. Rimase in cura da Marina diverso tempo e lei gli consigliò di affrontare la paura tornando in mare, piano piano e in condizioni di sicurezza. Dopo qualche uscita, l’uomo sembrava stare meglio e decise di portare con sé sua sorella, quel giorno il cielo sembrava sereno e prometteva un giornata limpida, ma il tempo non mantenne la promessa e un temporale improvviso fece sprofondare nel panico l’uomo, che non seppe evitare la disgrazia.
Una sola era la responsabile di quella morte.

Marina.

Maria Cozzupoli

4 commenti:

  1. Non pubblichi più nessun racconto? Dopo l'ultimo pezzetto io mi stavo appassionando..

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  2. Ciao Tito! Mi spiace per la latitanza, ma in questo periodo sono sommersa di impegni per la tesi. A breve pubblicherò una recensione su Fiesta di Hemingway... Verranno tempi in cui sarò meno impegnata =) Grazie per il commento.Mari

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  3. Tra l'altro, mi piacerebbe condividere con te alcune cose che mi sono venute in mente leggendo ciò che scrivi, ma non so se farlo attraverso un commento qua, che possono leggere tutti, sia opportuno. Dimmi tu..

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    1. Ciao Tito, ti ho aggiunto alle cerchie di google plus, se vuoi scrivermi per posta personale fallo all'indirizzo: marilla88@hotmail.it

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