L’avrebbero trovata morta
in un cilindro di vetro, immersa in un liquido giallastro.
Era sudata, i capelli
appiccicati sulla fronte: una matassa aggrovigliata. Nel letto, accanto al lei
il posto di Massimo era vuoto e un incubo di strattoni, aliti rivoltanti e
unghie nella carne le ronzava ancora in testa.
Si alzò per cercarlo,
ma nella stanza d’albergo in cui erano arrivati la sera prima tutte le sue cose
erano a posto, mancava solo lui. Anche i vestiti erano piegati e disposti ordinatamente
sulla sedia. L’immagine buffa di un Massimo che scorrazzava in mutande per
l’albergo, la fece sorridere un attimo, poi con un’apprensione sempre più forte,
infilò un paio di jeans, una maglietta e uscì dalla stanza.
Il poliziotto che
perlustrò la camera confermò che non vi erano indizi che potessero far pensare
a una terza persona. Massimo era scomparso e Marina, in una muta agonia
continuava a sperare di vederlo apparire, come se nulla fosse, da dietro la
porta della stanza. Tra meno di quarantotto ore avrebbe dovuto prendere il
treno che l’avrebbe riportata a Roma, tuttavia, era fuori discussione che
potesse tornare indietro se non lo avesse ritrovato.
Cominciò a frugare nei
posti che lui amava di più a Torino, nel caso si fosse trattato solamente di
una crisi e non qualcosa di peggio: la sala da tè in corso Moncalieri, il bar
Torino, le panchine di fronte alla Mole. Nulla. Non trovò altro che posti
vuoti.
Trascorse un tempo
indefinibile, poi la vennero ad arrestare: avevano trovato il corpo di Massimo
impigliato in un ramo fluttuante nell’acqua del Po. Al collo aveva segni di
strangolamento, segni sottili di dita sottili. Incominciarono subito le
indagini per omicidio, l’unica evidenza inconfutabile era la presenza di Marina
nella stanza in cui era stato ucciso Massimo.
La cella in cui la
misero insieme ad altre donne era gelida, umidiccia e grigia; le pareti le
vorticarono intorno e un senso di soffocamento la sopraffece per un attimo. Poi
rivide le sbarre grigie, ed era ancora imprigionata in una stanza buia nell’incertezza
di quello che stava per capitare. La scortarono nell’aula di tribunale, il
pubblico ministero era una donna dai capelli castani, tagliati sulle guance e
un tailleur grigio canna di fucile.
Non si rese conto di
come fosse finita sulla sedia dei testimoni, ma intorno a sé vide le sbarre di
legno disposte in un semicerchio, che assomigliavano in maniera inquietante e
ridicola ai podi di Forum in cui due attori pagati bisticciavano di fronte ad
un giudice fasullo. Mentre pensava a questo, il pubblico ministero fece per
avvicinarsi a lei, ma le sue mosse si bloccarono: uno strato bianco salì come
un esercito invisibile dai piedi della donna fino a inglobarle prima le gambe e
poi tutto il resto del corpo, la scena rimase pietrificata fino a che si ruppe
in mille pezzi e il buio totale avvolse la mente di Marina.
Quando riaprì gli
occhi, il bruciore glieli trafisse, allora li richiuse subito. Era immersa
nell’acqua o così sembrava, non riusciva a respirare e si agitò cercando di far
uscire di qualche centimetro la testa dall’acqua, solo piegando il collo poteva
respirare in quei cinque centimetri di aria. Vaghi ricordi della nottata
precedente riemergevano dal buio della sua mente. Ricordò il dolore lancinante
di una spalla lussata, e il volto conosciuto di un uomo, che però adesso
sfuggiva alla sua comprensione.
Pian piano che la
coscienza tornava, il dolore alla spalla tornò in superficie, e doveva avere
anche dei graffi sulla schiena. Non riusciva a vedere nulla e sentiva che i
respiri si facevano sempre più inefficaci, l’aria scarseggiava e il pensiero di
Massimo la investì come un pugno. Che fine aveva fatto?
Ricordava che la sera
prima erano tornati dal ristorante un po’ alticci, lei era appoggiata allo
specchio dell’ascensore con i tacchi in una mano e l’altra mano tra i capelli
di Massimo, quando l’ascensore si fermò al loro piano e la figura di… Nulla non
riusciva a far tornare alla mente il volto dell’uomo che li guardava dall’altra
parte del corridoio, l’aveva riconosciuto, aveva già visto quello sguardo
freddo, determinato, ostile, ma non riusciva più a connettere un pensiero con
quello successivo, l’ossigeno stava terminando. I polmoni cominciarono a
contrarsi in spasmi dolorosi.
«Devi affrontarla
questa rabbia» risentì la sua voce risuonare nelle orecchie, ma non ne capiva
il significato, si sforzò di nuovo ad aprire gli occhi, ma quello che vedeva
erano solo ombre appannate, giallastre, fantasmi neri che si muovevano in uno
sfondo che sembrava un obiettivo di una macchina fotografica.
Buio.
Sei mesi prima un
paziente di Marina rischiò di affogare essendo stato sbalzato fuori dalla sua
barca durante una tempesta. Rimase in cura da Marina diverso tempo e lei gli
consigliò di affrontare la paura tornando in mare, piano piano e in condizioni
di sicurezza. Dopo qualche uscita, l’uomo sembrava stare meglio e decise di
portare con sé sua sorella, quel giorno il cielo sembrava sereno e prometteva
un giornata limpida, ma il tempo non mantenne la promessa e un temporale improvviso
fece sprofondare nel panico l’uomo, che non seppe evitare la disgrazia.
Una sola era la
responsabile di quella morte.
Marina.
Maria Cozzupoli