domenica 10 agosto 2014

Un effetto collaterale

Recensione di
Colpa delle Stelle
John Green, 2012

Un romanzo che tenta di travestirsi da bestseller per adolescenti, ma fallisce e si trasforma in una riflessione dolorosa e originale sulla vita e sul morire.




Ho iniziato per prima cosa a vedere il film tratto da questo strano, coinvolgente romanzo, in una serata in cui avevo voglia di disimpegno e di guardare un film "leggero", purtroppo/fortuna per me il film si è rivelato molto più pesante e, direi, doloroso del previsto.
Quindi ho deciso di leggere anche il libro da cui era tratto e scrivere qui cosa ne penso.
Se non conoscete la trama a grandi linee parla di due adolescenti Hazel Grace e Augustus che sono malati di cancro e si innamorano. Sì, ma non è solo questo. Non è la classica storiella struggente che ti fa piangere due minuti per i facili clichè emotivi e poi proseguire come nulla fosse per la tua vita. No. Per certi versi si può dire che alcune citazioni e/o esempi non siano nulla di geniale come "alcuni infiniti sono più grandi di altri", ma se si fanno scendere queste citazioni nel contesto e nelle parole di due ragazzi adolescenti, allora tutto assume un significato più profondo. C'è Augustus Waters che è fissato con le metafore, infatti ha l'abitudine di tenere un bocca una sigaretta spenta perché quella è la metafora di tenere tra le labbra una cosa che può ucciderti senza la possibilità di farlo. Vede metafore in molte piccole cose e questo sondare la realtà e rivelarne i lati più ridicoli che si danno per scontati nella vita comune, sembra essere una sua ossessione. Mi è rimasto impresso questo passaggio di un Augustus diciassettenne:

"Ero un po' l'archetipo del ragazzo cresciuto in Indiana. [...] Tutto impegnato nel tentativo di di riesumare la perduta arte del tiro in sospensione. Un giorno però ero nella palestra dell North Central ad allenarmi ai tiri liberi, fermo all'altezza della lunetta, quando tutto d'un tratto non sono più riuscito a spiegarmi perché me ne stavo lì a lanciare metodicamente con oggetto sferico in un altro oggetto toroidale. Mi è sembrata la cosa più stupida del mondo. Ho cominciato a pensare ai bambini piccoli che provano a infilare una forma cilindrica in un buco circolare, e a come lo fanno sistematicamente per mesi finché non capiscono come funziona e la palla canestro è una versione più aerobica dello stesso esercizio." In seguito definirà questo "il giorno dei tiri liberi esistenzialmente pregni". 

Quello che può stonare è solo leggere queste parole in bocca a un ragazzo di diciassette anni e può essere vista come una forzatura il creare dei personaggi adolescenti con una profondità di pensiero più puntuale di un 30-40-50enne, quello che penso io è che questi due personaggi avendo un numero di giorni limitati (come tutti noi) ma con un livello di consapevolezza molto più elevato del nostro, abbiano sviluppato una riflessione molto più profonda su ogni piccola cosa, per rendere il loro poco tempo molto più significativo.

Hazel Grace, ossessionata da un libro che parla in maniera lucida e onesta della sua malattia, ha una visione di se stessa e della vita molto cinica, si auto definisce "effetto collaterale" del processo evolutivo dell'umanità che per progredire attraverso le mutazioni genetiche provoca ogni tanto degli "scarti": organismi che sviluppano cellule tumorali. Parla molto spesso di "effetto collaterale", all'inizio definisce la depressione come "un effetto collaterale del morire", per lei anzi, tutto è un effetto collaterale del morire. Il discorso può sempre molto triste e cupo, invece è un racconto molto divertente, perché come lei stessa afferma "a questo mondo si può sempre scegliere come raccontare le storie tristi, e noi abbiamo optato per la versione divertente". E' divertente nella maniera in cui con una scheggia conficcata nel fianco qualcuno ti fa ridere, ma mentre ridi, che è già di per sé una risata disperata, senti fitte di dolore. Il dolore per la terribile realtà in cui questi due giovani stanno vivendo.
E' una storia d'amore, ma non è solo questo, è una profonda riflessione sugli effetti collaterali del morire, sull'oblio, sull'esistenza umana e anche sul cancro. E' "leggera" perché quasi non ci si rende il conto di leggere, ma la storia è come se si ricreasse dentro di te, è come vivere davvero tra questi personaggi che sono quasi persone. E' un viaggio nel metaromanzo. Sono sicura che piangerai a leggerlo o a vedere il film, non ti fidi? Try me.


Vorrei allegare ancora uno scambio di battute tra Hazel (malata di un cancro con metastasi nei polmoni) e Augustus (con un sarcoma alla gamba, che è stata amputata e ora si trova in sedia a rotelle). NB (Isaac è un altro loro amico dal gruppo di sostegni di ragazzi malati di cancro reso cieco da un tumore agli occhi)
Parla Hazel 



Ci sarebbero ancora molte altre cose da dire su questo libro, ma adesso non mi vengono in mente, forse dovreste semplicemente leggerlo o aspettare il 4 settembre e andare a vederlo al cinema.


XOX 
Marì

giovedì 17 aprile 2014

L'estraneo più estraneo



I buoni e i cattivi,
Angela Carter,
1969, 218 pp., 14;
trad it. di Simona Fefè

Eccomi! Dopo una lunga assenza di letture bulimiche, torno a recensire un libro di Angela Carter, una delle mie preferite, appena concluso. Premetto che essendo la lettura così vicina, sento ancora quel disagio emotivo che lascia il chiudere un libro che hai amato e dunque la mia recensione potrebbe essere velata di romanticismo (Dio me ne scampi!). E questo della Carter l'ho amato davvero. E' un libro difficile e denso e temo dovrò fare dello spoiler per riuscire ad analizzarlo. In questo romanzo che può essere definito di genere fantascientifico post-apocalittico vi sono molti dei temi che affronterà in altri romanzi e racconti, ma anche degli spunti differenti, che lasceranno spazio alla riflessione filosofica sulla parola. Marianne è la protagonista del libro, nonché punto focale della narrazione (sebbene sia svolta in terza persona): in un Inghilterra desolata dopo una guerra (mai raccontata nei dettagli) che ha spazzato via la maggior parte dell'umanità e della cultura, gli unici sopravvissuti sono raggruppati in diversi strati sociali: ci sono in Professori che sono sopravvissuti alla guerra e sono gli unici custodi della conoscenza pre-apocalittica, che vivono in villaggi e ne sono i reggenti. I villaggi vengono costruiti dagli Operai e protetti dai Soldati. Fuori dai villaggi vi sono i Barbari che vengono reputati i "cattivi" dagli abitanti dei villaggi, perché essendo girovaghi di tanto in tanto fanno razzie nei villaggi per procurarsi oggetti, manufatti e vettovaglie. Poi ci sono Quelli di fuori, che sono sub-umani, probabilmente deformi a causa di bombe nucleari della Guerra ancor più selvaggi dei Barbari e temuti da tutti. Marianne vive in un villaggio ed è figlia di un Professore di Storia e in tenera età assiste alla uccisione di suo fratello durante uno scontro con i Barbari, scioccata ma anche attratta dalla figura atavica e ancestrale che era il barbaro, conserverà per sempre l'immagine dell'uccisione di suo fratello. Un'altra caratteristica degli abitanti dei villaggi è che hanno così tanto tempo per studiare e annoiarsi, che molto spesso impazziscono e compiono stragi. La madre di Marianne, infatti, a seguito della morte del figlio si toglie la vita, e dieci anni dopo la tata di Marianne impazzisce e uccide con un'ascia il padre della ragazzina. Tutto quello che amava era andato in fumo, dunque Marianne non si sentiva più a casa e anche la sua stesa identità era incerta; come atto di ribellione alla sua femminilità si taglia i capelli cortissimi. 
"Adesso era proprio brutta e rimirava la sua bruttezza davanti ad ogni specchio provando un piacere violento"
Dopo qualche tempo il villaggio viene attaccato nuovamente dai Barbari e Marianne che vede un Barbaro ferito che si rifugia in un fienile, mossa dalla pietà va a soccorrerlo e qui coglie l'occasione di scappare con lui.
"Era partita con l'intezione di salvare il Barbaro ma ora si trovava ad accettare che a salvarla fosse lui".
Da questo momento inizia la storia travagliata tra Marianne e Gioiello che non è una relazione solo tra loro due: è la rappresenzazione dell'incomunicabilità tra uomo e donna, in una divisione definitiva di genere. E' una storia straziante di amore e odio. "Marianne si trovava in compagnia dell'estraneo più estraneo in cui potesse desiderare di imbattersi."
 Rappresenta la fusione impossibile: tanto che il primo rapporto tra i due avviene tramite uno stupro, il che indica che l'unico contatto possibile tra i due sia possibile tramite la violenza. Anche dopo il rapporto è suddiviso con l'incedere del giorno: quando c'è luce sono lontani, di notte, con il buio e quando i controrni dell'altro si confondo con la notte allora è possibile la fusione dei due corpi, ma mai delle identità. "Non riuscì più a capire dove finiva il buio e dove inziava il suo corpo."
Questa incomunicabilità è un tema su cui Carter insiste soprattutto considerati due fattori: lei e i Barbari non parlavano la stessa lingua e soprattuto quasi nessuno di loro sapeva scrivere, facoltà che condivideva con il medico/santone/sapiente della comunità barbara Donally (probabilmente un ex Professore) che le lasciava degli aforismi quasi chiaroveggenti sulla sua situazione con Gioello.
Un'altro punto su cui insiste è l'apparenza sotto la quale si cela la vera identità, ma che in molti casi si fonda con essa. Lo specchio, tropo ricorrente in tutti i suoi libri, è la superficie su cui si ferma l'apparenza, e nel quale molti dei suoi personaggi stenatono a riconoscersi. Marianne atraverso la bellezza sconvolgente di Gioello riflette su chi siano i buoni e chi i cattivi, cosa significhi l'apparenza, e la ritualità. Descrivendo Gioello, la voce narrante dice infatti:
"L'oscurità si palesava nei contorni alterati del suo volto. Era un'opera d'arte, creata e non generata, un fantastico dandy del nulla, la cui vera natura era stata interamente incasellata nell'aliena e terrificante bellezza di un gesto retorico. La sua apparenza era astratta dal suo corpo e tutto in lui era stato intenzionalmente ridotto al linguaggio dei segni. Era diventato il simbolo di un'idea di eroe."
Ancora sulle apparenze nella voce questa volta della stessa Marianne "Sei talmente bello che non puoi non essere vero [...] Ma penso che a lungo andare, sarò costretta a fidarmi delle apparenze. Quendo ero piccola, giocavamo a buoni e cattivi ma adesso non so più da che parte siano gli uni e gli altri, nè chi siano, e allora che cosa mi resta, se non le apparenze?".
Infine però, dopo travagliate vicende, forse i due riescono a trovare un ultimo seppur effimero contatto.
"Lui sollevò lo sguardo e rimasero a fissarsi fra la meraviglia e il sospetto, come membri sotto mentite spoglie di una cospirazione rimasti all'oscuro dei segnali di riconoscimento, perché a nessuno dei due pareva possibile, né auspicabile, che i loro sensi avessero ragione e che fossero in grado di trovare l'uno nell'altra un impulso alla sopravvivenza in quel mondo ostile".

Marì

venerdì 21 febbraio 2014

Visioni Marine


L’avrebbero trovata morta in un cilindro di vetro, immersa in un liquido giallastro.

Era sudata, i capelli appiccicati sulla fronte: una matassa aggrovigliata. Nel letto, accanto al lei il posto di Massimo era vuoto e un incubo di strattoni, aliti rivoltanti e unghie nella carne le ronzava ancora in testa.
Si alzò per cercarlo, ma nella stanza d’albergo in cui erano arrivati la sera prima tutte le sue cose erano a posto, mancava solo lui. Anche i vestiti erano piegati e disposti ordinatamente sulla sedia. L’immagine buffa di un Massimo che scorrazzava in mutande per l’albergo, la fece sorridere un attimo, poi con un’apprensione sempre più forte, infilò un paio di jeans, una maglietta e uscì dalla stanza.
Il poliziotto che perlustrò la camera confermò che non vi erano indizi che potessero far pensare a una terza persona. Massimo era scomparso e Marina, in una muta agonia continuava a sperare di vederlo apparire, come se nulla fosse, da dietro la porta della stanza. Tra meno di quarantotto ore avrebbe dovuto prendere il treno che l’avrebbe riportata a Roma, tuttavia, era fuori discussione che potesse tornare indietro se non lo avesse ritrovato.
Cominciò a frugare nei posti che lui amava di più a Torino, nel caso si fosse trattato solamente di una crisi e non qualcosa di peggio: la sala da tè in corso Moncalieri, il bar Torino, le panchine di fronte alla Mole. Nulla. Non trovò altro che posti vuoti.
Trascorse un tempo indefinibile, poi la vennero ad arrestare: avevano trovato il corpo di Massimo impigliato in un ramo fluttuante nell’acqua del Po. Al collo aveva segni di strangolamento, segni sottili di dita sottili. Incominciarono subito le indagini per omicidio, l’unica evidenza inconfutabile era la presenza di Marina nella stanza in cui era stato ucciso Massimo.
La cella in cui la misero insieme ad altre donne era gelida, umidiccia e grigia; le pareti le vorticarono intorno e un senso di soffocamento la sopraffece per un attimo. Poi rivide le sbarre grigie, ed era ancora imprigionata in una stanza buia nell’incertezza di quello che stava per capitare. La scortarono nell’aula di tribunale, il pubblico ministero era una donna dai capelli castani, tagliati sulle guance e un tailleur grigio canna di fucile.
Non si rese conto di come fosse finita sulla sedia dei testimoni, ma intorno a sé vide le sbarre di legno disposte in un semicerchio, che assomigliavano in maniera inquietante e ridicola ai podi di Forum in cui due attori pagati bisticciavano di fronte ad un giudice fasullo. Mentre pensava a questo, il pubblico ministero fece per avvicinarsi a lei, ma le sue mosse si bloccarono: uno strato bianco salì come un esercito invisibile dai piedi della donna fino a inglobarle prima le gambe e poi tutto il resto del corpo, la scena rimase pietrificata fino a che si ruppe in mille pezzi e il buio totale avvolse la mente di Marina.
Quando riaprì gli occhi, il bruciore glieli trafisse, allora li richiuse subito. Era immersa nell’acqua o così sembrava, non riusciva a respirare e si agitò cercando di far uscire di qualche centimetro la testa dall’acqua, solo piegando il collo poteva respirare in quei cinque centimetri di aria. Vaghi ricordi della nottata precedente riemergevano dal buio della sua mente. Ricordò il dolore lancinante di una spalla lussata, e il volto conosciuto di un uomo, che però adesso sfuggiva alla sua comprensione.
Pian piano che la coscienza tornava, il dolore alla spalla tornò in superficie, e doveva avere anche dei graffi sulla schiena. Non riusciva a vedere nulla e sentiva che i respiri si facevano sempre più inefficaci, l’aria scarseggiava e il pensiero di Massimo la investì come un pugno. Che fine aveva fatto?
Ricordava che la sera prima erano tornati dal ristorante un po’ alticci, lei era appoggiata allo specchio dell’ascensore con i tacchi in una mano e l’altra mano tra i capelli di Massimo, quando l’ascensore si fermò al loro piano e la figura di… Nulla non riusciva a far tornare alla mente il volto dell’uomo che li guardava dall’altra parte del corridoio, l’aveva riconosciuto, aveva già visto quello sguardo freddo, determinato, ostile, ma non riusciva più a connettere un pensiero con quello successivo, l’ossigeno stava terminando. I polmoni cominciarono a contrarsi in spasmi dolorosi.
«Devi affrontarla questa rabbia» risentì la sua voce risuonare nelle orecchie, ma non ne capiva il significato, si sforzò di nuovo ad aprire gli occhi, ma quello che vedeva erano solo ombre appannate, giallastre, fantasmi neri che si muovevano in uno sfondo che sembrava un obiettivo di una macchina fotografica.
Buio.
Sei mesi prima un paziente di Marina rischiò di affogare essendo stato sbalzato fuori dalla sua barca durante una tempesta. Rimase in cura da Marina diverso tempo e lei gli consigliò di affrontare la paura tornando in mare, piano piano e in condizioni di sicurezza. Dopo qualche uscita, l’uomo sembrava stare meglio e decise di portare con sé sua sorella, quel giorno il cielo sembrava sereno e prometteva un giornata limpida, ma il tempo non mantenne la promessa e un temporale improvviso fece sprofondare nel panico l’uomo, che non seppe evitare la disgrazia.
Una sola era la responsabile di quella morte.

Marina.

Maria Cozzupoli

Why is the measure of love loss?

Scritto sul corpo
Jeanette Winterson, 1992



Ho letto questo libro più volte sia in italiano che inglese, e quello che mi preme dire prima di iniziare qualsiasi pensiero è che non si può comprendere appieno il romanzo senza averlo letto anche in inglese. Non è così per qualsiasi opera? Sì, ma questo è tanto più vero quanto un’opera da prosa si trasforma in poesia. Scritto sul corpo è un poema in prosa, la maggior parte delle frasi ha una musicalità e una poeticità che sono impossibili da rendere in italiano.


Ho riletto questo libro più volte, perché è un libro denso, c’è una vita intera dentro ed è anche una prova di scrittura sperimentale. La prima volta che lo lessi, non compresi i numerosissimi riferimenti che Winterson ha disseminato nel testo, la sensazione è quella che lei abbia voluto rifare il modernismo. Già dalle prime pagine in cui dice “Non piove da tre mesi. Gli alberi scavano sonde sotto terra, inviano radici di riserva nel suolo arido, radici che aprono come fossero rasoi ogni vena gonfia d’acqua” introducendo il tema Eliotiano della natura arida, dalla landa desolata, The Waste Land, letteralmente, più avanti farà riferimento a Joyce, e soprattutto si sente in modo quasi fisico la presenza di Angela Carter, dalle wonderings in giro per un Londra illuminata dalla luce bianca della luna, all’erotismo fisico e profondo, ai riferimenti ai gigli e alla Camera di Sangue. 


Quando leggi Scritto sul corpo, improvvisamente qualsiasi altro testo sull’amore o sulla complessità dei sentimenti risulta scontato o banale, superficiale come minimo. Ti sega in due come una lama circolare, per riprendere un’espressione che la scrittrice usa ogni tanto, ti entra dentro e ti fa rivalutare tutte le sensazioni che hai provato fino ad allora. Rispecchia un’introspezione molto profonda un amore che viene vissuto in tutte le sue dimensioni, ma soprattutto, come cita il testo, nella dimensione corporea, fisica.


Cos’è a rendere un libro degno di entrare nella storia più degli altri? Uno dei fattori è quello di restituire al mondo ciò che gli appartiene e renderlo universale. Ovvero offrire situazioni e interpretazioni della vita che si rivelano così reali da diventare quasi una legge, e allora quando riconosci una tua esperienza, quando ti riconosci in un personaggio, quando i personaggi incominciano a vivere, allora quello che hai in mano è un pezzo di letteratura. E Scritto sul corpo non è un romanzetto qualsiasi, è la vita catturata in frammenti scollegati. È il sentimento che emerge e ti risucchia in un mondo per certi aspetti onirico. Come onirica è la caratterizzazione della voce narrante, il cui genere rimane incerto fino all’ultima pagina. Da segnalare, qui è la differenza tra la versione italiana e quella inglese: nella versione originale si intuisce che a parlare sia una donna, mentre nella traduzione italiana viene resa quasi come una voce maschile, a torto e truffando (anche se magari in buona fede) la comprensione completa del messaggio nel libro.


Vi lascio alle parole della Winterson (scusate se le ho tirate su un po’ in inglese e un po’ in italiano)


Voglio che tu venga da me senza passato. Le frasi che hai imparato, dimenticale. Dimentica di aver frequentato altre stanze da letto, altri luoghi. Vieni da me come se fosse la prima volta. Non dire mai che mi ami fino al giorno in cui me lo dimostri

Your hand prints are all over my body

Stavi attenta a non dire le parole che presto sarebbero diventate il nostro altare privato. Io le avevo già dette molte altre volte lasciandole cadere come monete nel pozzo dei desideri, sperando che si avverassero. Le avevo già dette molte volte ma non a te.

Non mi ritengo una persona insincera ma se dico che ti amo e non lo intendo cos'altro sono?


I love you and my love for you makes any other life a lie.


Marì

martedì 4 febbraio 2014

Neruda


Era l'ora felice dell'assalto e del bacio.
L'ora dello stupore che ardeva come un faro.Neruda
La verità è che perdendoti ho ritrovato me stessa.

giovedì 30 gennaio 2014

Ad occhi chiusi


Eri il mio salvagente, ma non m'accorgevo di saper nuotare benissimo. 
E anche in questa notte più buia, ti maledico perché non mi tiri fuori dai guai, non perché mi manca la tua presenza. Dopo tanta sofferenza, forse ho disimparato a soffrire, a legarmi, forse ho disimparato ad amare. O forse non ti ho amato mai. O forse, meglio la forza che c'è in me è inesorabile e spazza i ponti. 
Disprezzo chi piange gli amori passati e cerca in tutti i modi un amore che non c'è più. Vedo anime corrompersi alla degradazione, all'umiliazione di elemosinare affetto da chi le ha lasciate. 
Con queste parole confusionarie, liriche e a tratti proprio brutte, mi lascio andare. Sento lo scorrere degli eventi, ero aggrappata a una superficie che m'accorgo ora essere deformata, mollo la presa e mi lascio andare. Non impazzisco, osservo e valuto, chiudo gli occhi e vivo.

mercoledì 29 gennaio 2014

Sei la mia schiavitù sei la mia libertà


Sei la mia schiavitù sei la mia libertà
sei la mia carne che brucia
come la nuda carne delle notti d'estate
sei la mia patria
tu, coi riflessi verdi dei tuoi occhi
tu, alta e vittoriosa
sei la mia nostalgia
di saperti inaccessibile
nel momento stesso
in cui ti afferro.

Nelle mie braccia tutta nuda

Nelle mie braccia tutta nuda
la città la sera e tu
il tuo chiarore l’odore dei tuoi capelli
si riflettono sul mio viso.

Di chi è questo cuore che batte
più forte delle voci e dell’ansito?
è tuo è della città è della notte
o forse è il mio cuore che batte forte?

Dove finisce la notte
dove comincia la città?
dove finisce la città dove cominci tu?
dove comincio e finisco io stesso?

Il vento cala e se ne va

Il vento cala e se ne va
lo stesso vento non agita
due volte lo stesso ramo
di ciliegio
gli uccelli cantano nell’albero
ali che voglion volare
la porta è chiusa
bisogna forzarla
bisogna vederti, amor mio,
sia bella come te, la vita
sia amica e amata come te

so che ancora non è finito
il banchetto della miseria ma
finirà...

N. Hikmet

sabato 25 gennaio 2014

Pictures of You



I've been looking so long at these pictures of you 
That I almost believe that they're real 
I've been living so long with my pictures of you 
That I almost believe that the pictures are 
All I can feel 

Remembering 

You standing quiet in the rain 
As I ran to your heart to be near 
And we kissed as the sky fell in 
Holding you close 
How I always held close in your fear 
Remembering 
You running soft through the night 
You were bigger and brighter and wider than snow 
And screamed at the make-believe 
Screamed at the sky 
And you finally found all your courage 
To let it all go 

Remembering 

You fallen into my arms 
Crying for the death of your heart 
You were stone white 
So delicate 
Lost in the cold 
You were always so lost in the dark 
Remembering 
You how you used to be 
Slow drowned 
You were angels 
So much more than everything 
Hold for the last time then slip away quietly 
Open my eyes 
But I never see anything 

If only I'd thought of the right words 

I could have held on to your heart 
If only I'd thought of the right words 
I wouldn't be breaking apart 
All my pictures of you 

Looking so long at these pictures of you 

But I never hold on to your heart 
Looking so long for the words to be true 
But always just breaking apart 
My pictures of you 

There was nothing in the world 

That I ever wanted more 
Than to feel you deep in my heart 
There was nothing in the world 
That I ever wanted more 
Than to never feel the breaking apart 
All my pictures of you

giovedì 23 gennaio 2014

Che tu sia per me il coltello

Immagina delle onde elettromagnetiche che si espandono a cerchi concentrici, ma invece di essere invisibili sono corporee, affilate come coltelli, leggere, ma allo stesso tempo totalizzanti: che avvolgono e si infilano sotto i vestiti, sotto la pelle tagliando la carne, l'anima, l'energia vitale. Questo è ciò che provo ad ascoltare gli archi, questo è il motivo per cui ho messo una violinista come protagonista nel mio primo romanzo.

sabato 11 gennaio 2014

Quella maledetta bottiglia

Altro raccontino eliminato dalla scelta


Fiotti di acqua incontenibile sgorgavano e a traboccavano dalle finestre, rumore di vetri che si incrinano, mattoni che franano. Prima che potessi formulare un pensiero l’acqua era dappertutto: in bocca, negli occhi, nei polmoni.
La sera prima avevo spento la tv dopo aver guardato una puntata di un telefilm noiosissimo e assurdo, e mi ero addormentata con una sensazione strana al petto. Come sempre, quando vivi una situazione perturbante, qualsiasi elemento esterno ti riporta lì, e nella puntata in questione c’erano abusati cliché di coppie felici e amori non corrisposti. Niente di originale, sia chiaro, ma ricordava la mia di situazione.
Mi alzai la mattina dopo e come tutti i giorni raggiunsi la biblioteca dove studio: una teca di vetro immersa in un parco.
Un’ora e mezza dopo alzai lo sguardo dal libro che stavo leggendo e dei riccioli biondi catturarono la mia attenzione. Vidi una ragazza con occhi azzurri, pelle molto chiara e questi boccoli che contornavano il viso, tutta la figura rivolta verso di me aveva un ché di angelico, in quell'istante sentì qualcuno che aveva posato la mano sulla mia spalla, alzai lo sguardo e lo vidi: il sorriso a mezza luna che sembrava strapparmi il cuore dal petto ogni volta che si apriva.
«Ciao Marco»
«Hey come va? Ci prendiamo un caffè?»
«No adesso, non p…»
«Scusa, un attimo. Hey Elena! Quanto tempo» aggiunse e si avvicinò al tavolo della ragazza con i boccoli d’oro. Da quel momento in poi era come se fossi sparita. Dico proprio sparita, nel vuoto, nel nulla. Buio totale. Si susseguirono giornate in cui parlavo con lui circa cinque minuti, prima che Elena comparisse. Il cuore, i sogni ad occhi aperti, la storia della nostra vita, tutto stava andando a rotoli, almeno la vedevo così in quel momento. Vedevo il muro della mia vita perdere pezzi, sgretolarsi, e insieme a lui tutte le immagini di me.
Poi mi accorsi una mattina che Chuck, proprio lui, il personaggio più viscido di tutta la storia dei telefilm, era al bancone della biblioteca a concludere un prestito per un’anziana signora, sul momento non mi sembrò troppo strano. Non mi sembrò strano nemmeno sentire me stessa chiedergli dei consigli di cuore: dato che lui era innamorato di una tizia che stava per sposarsi, mi sembrava abbastanza ferrato sul tema degli amori non corrisposti.
Con l’onda di capelli ingellata e un sorriso obliquo, mi disse che secondo lui l’unico modo per riprendermi Marco era eliminare Elena e lui sarebbe stato dalla mia parte se avessi voluto procedere. Aveva un piano.
Ero interessata, non mi ero mai sentita così vuota, umiliata e arrabbiata: ero disposta a tutto pur di riaverlo. Quindi io e Chuck cominciammo a discutere del piano: per prima cosa era necessario scoprire dove abitasse Elena, e per questo motivo quella sera la seguimmo fino a casa.
Eravamo lì io e Chuck, intirizziti dal freddo, le dita blu, ma avevamo un piano da seguire: avremmo piazzato dell’esplosivo sulle tubature della casa (no non mi sembrò strano nemmeno questo) e al momento opportuno avremmo detonato le bombe e inondando così l’intero palazzo.
Senza nemmeno rendermene conto eravamo già sottoterra a piazzare esplosivi, ma non sapevamo esattamente cosa sarebbe successo. Incredibile, nel giro di un giorno ero passata dall’essere la ragazzina sfigata e col cuore spezzato, a una stratega lucida e fredda.
Il giorno dopo, un altro giorno uguale tra quei giorni identici, Marco ed Elena erano seduti al tavolo di fronte al mio abbracciati e qualsiasi cosa facesse l’uno, l’altro non interrompeva mai il contatto fisico. Lei era così perfetta da spezzarmi, non riuscivo a leggere due righe di seguito, mi muovevo in continuazione senza trovare una posizione comoda. Alla fine, esasperata, uscii per prendere una boccata d’aria. Chuck era lì con una sigaretta in bocca.
«Che c’è nervosa per sta sera?» mi chiese. Non risposi e andai dritta verso il parco, sicuramente camminare in tondo per un po’ mi avrebbe calmata, forse.
E invece no.
Quando tornai dentro, vidi lo sguardo di Marco verso Elena: era uno di quelli che puoi solo sperare di ricevere nella vita. Mi mozzò il fiato, una tenaglia mi strinse la gola, la testa girava, ma poi mi sentii afferrare da Chuck che mi portava di peso dove avremmo dovuto essere.
Quando Marco ed Elena arrivarono al portone della palazzina il cuore mi si fermò. I due scomparvero nella porta d’ingresso, e io non potevo vederli morire, non potevo veder morire lui. Riuscii a divincolarmi dalla presa di Chuck e quando li raggiunsi erano ancora sul pianerottolo davanti a casa di Elena. Gridai di correre via, urlavo disperata e cercavo di tirarli via da lì, ma non mi davano ascolto quindi scappai e quando mi volsi un’ondata d’acqua inarrestabile si riversò su di me.
L’acqua che mi scivolava sul collo e sulle guance era fredda, aprii gli occhi e vidi il collo della bottiglia sopra di me e il suo contenuto sulla mia faccia.
Mi alzai e come tutte le mattine raggiunsi la biblioteca. Mi sedetti e la vista di quei riccioli biondi mi folgorò.




Un tipo sveglio

Raccontino che ho scritto per il mio corso di scrittura creativa, che non ha passato la selezione tra altri due e quindi ripropongo qui.

Gocce di pioggia cadevano dall'alto come proiettili su una bara nera e lucida, con sopra sparsi fiori rosa e bianchi. Attorno teste nere su giacche grigie. Poi Jared alzò lo sguardo verso l’alto, i suoi occhi brillarono alla luce riflessa nella pioggia.
«Fai qualcosa!» Gridò «Ti prego, riportala da me» disse con la voce incrinata e si accasciò in ginocchio. Le altre persone lo guardarono sconcertate, qualcuno tirò su col naso. Poi la bara scomparve nel terreno.
Qualche giorno prima Jared stava scrivendo qualcosa sul diario alla scrivania. Ogni tanto alzava la testa e si guardava in torno con aria furtiva. Si alzò a mettere su il caffè, poi tornò al tavolo, la sua attenzione sembrava vacillare tra il diario e i fantasmi che inseguiva con lo sguardo. La puzza di bruciato sembrò portarlo alla realtà: corse alla macchinetta, ma ormai era inutilizzabile. Furioso, buttò tutto nella spazzatura e uscì da casa.
Quando raggiunse il bar che frequentava ogni mattina, si illuminò scorgendo Julia che sorseggiava un caffè leggendo il giornale.
«Ciao Amore!» esclamò lei.
«Buongiorno» disse lui, fermandosi quasi subito, interdetto. Poi si sedette al tavolo con lo sguardo perso nel vuoto.
«Ma cosa c’è che non va in questi giorni?»
«Non so, ho una strana sensazione, ma nulla di ché davvero non preoccuparti!»
«Strana come? Sei così distratto... Sai che puoi parlarmi di tutto»
«Mah non so, mi sembra di essere Neo il protagonista di Matrix, l’hai visto no?»
«Sì sì»
«Si ecco, mi sembra che nella mia vita ci sia qualcosa di sbagliato, ma non so spiegarti bene cosa. Per esempio, non ti è mai capitato di trovarti in un luogo senza ricordarti come ci fossi arrivata? Come in un sogno: non so sempre perché sto per dire qualcosa, ma poi la dico lo stesso...»
«Si, certo a volte mi capita, ma è per via dello stress, a volte sono così presa a pensare ad altro che non so com’è che faccio certe cose, magari anche tu sei troppo stressato sul lavoro. »
«Ma tu non hai mai la sensazione che la tua vita sia stata messa un un binario dal quale è impossibile deragliare? Ogni tanto penso di non avere il controllo della mia vita. Ma forse sono solo stanco. » Non appena pronunciò quest’ultima frase sbarrò gli occhi
«Di nuovo, ecco! cosa ti dicevo?»
«Cosa? »
«Proprio adesso, non volevo dire che fossi solamente stanco eppure l’ho detto lo stesso» L’espressione si fece prima stanca, abbattuta, poi però si scosse come se gli fosse venuta in mente un’idea.
«Ti ricordi cosa hai fatto questa mattina, prima di venire qui? »
La domanda la sorprese, poi con un leggero rossore affermò «Certo che mi ricordo, Jared! Che domande!»
«D’accordo, lasciamo perdere, non voglio turbarti, risolverò la cosa a modo mio.»
Uscì di corsa dal bar, pioveva e le strade erano scivolose, si fermò sul ciglio della strada poi sorrise e si lanciò nel traffico, l’impatto con il taxi sarebbe stato inevitabile se il conducente non avesse sterzato andando a finire in un cassonetto dei rifiuti.
Jared si alzò ancora intero e soddisfatto, non aveva notato che Julia era con i palmi delle mani schiacciati sul vetro del bar, sconvolta. Quando vide che Jared era ancora intero, corse da lui e cominciò a insultarlo a gridare e mollargli ceffoni. Lui la trasse a sè divertito, le sussurò qualcosa all’orecchio e poi scomparve in un vicolo.
Quando raggiunse il suo ufficio, al decimo piano di una palazzina di venti, dopo aver sistemato la valigetta accanto alla scrivania, essersi sfilato la giacca e allentato il nodo della cravatta, afferrò un pennarello e raggiunse il bagno. Ancora con un sorriso sulle labbra si mise a scrivere qualcosa sul vetro e uscì.
“Sta a vedere”
Aprì la porta che dava sulla stanza del capo, l’unica le cui finestre erano così ampie da occuparne tre lati. Era vuota, quindi si avvicinò alla finestra e vi appoggiò una mano sopra. Poi si decise ad aprirla e scavalcarla.
Si trovava ora appiattito al muro del palazzo, con occhi spiritati e il sudore grondava dappertutto, tremava mentre pronunciò quelle che avrebbero dovuto essere le sue ultime parole.
«So di non essere pazzo, so che esisti, qualsiasi cosa sia scrittore, autore, macchina, Dio, se ho ragione sopravvivrò.» disse e si lasciò cadere dal tetto. Un urlo proveniente dalla strada squarciò il silenzio era Julia che si accasciò esanime.
Jared volava verso il terreno ma la caduta venne attutita da un dehor proprio sotto il suo ufficio, il suo corpo venne sblazato su un’auto. Nessun movimento, ma era ancora vivo. L’ambulanza che arrivò dieci minuti dopo lo portò in rianimazione. Julia rimase lì in strada, coperta da un lenzuolo bianco.