Beh
ci vorrà un po' di coraggio per questo. Torno qui, sul mio "diario
di bordo", perché è da qui che sono scesa qualche anno fa, dal
momento in cui ho deciso che non avrei più sofferto per amore, dal
momento in cui ho deciso di chiudere me stessa dietro alla porta
piena di luce e di ricordi di cui parlavo in un altro post.
Come
al solito, e come mi sono già accorta in passato, tendo a
nascondermi, ad abbandonare me stessa in nome della "felicità"
dell' "amore", che poi queste parole e questi sentimenti
per me, ormai, sono dei vuoti di significato. Non perché non sia
felice: non sono mai stata più serena di così, ma perché in nome
di questa serenità ho chiuso tutto, ho murato viva Marina, ho
buttato la chiave e ho smesso di provare dei sentimenti autetici.
Poi
è arrivato il buddismo. Vi ho fregati, eh? Qui di solito avrei
scritto: e poi è arrivato "lui", e invece no. E' arrivato
il buddismo che con la sua filosofia e la forza della verità che
insegna, mi ha lentamente, e incessantemente, avvicinata sempre più
a quella porta.
Nel
buddismo esiste un termine per questo "Hosshaku Kempon" e
significa "liberarsi del provvisorio pe rivelare l'originale",
e nel momento in cui ho deciso farlo ho avvertito una fessura di
questa porta aprirsi.
Ho
visto cos'era provvisorio. E cos'era? mi chiederete voi. Era la mia
vita. Tutto quello che stavo facendo in quel momento: rincorrere cose
che non volevo, compiere azioni per abitudine, astenermi dallo
scrivere, dal pensare, dal riflettere, andare avanti per inerzia,
autoconvincermi di essere serena, di aver visto cosa fosse la mia
vita e come dovesse essere da qui a vent'anni; essere passiva in
definitiva. Era supefluo la scatola in cui ho messo la testa da tutta
la vita, questa prima di aver chiuso me stessa dietro la porta. Sì
ero chiusa là dentro e in più avevo la scatola in testa. Buffo eh?
Cosa può fare una religione, una filosofia, il daimoku.
Avevo
promesso a me stessa di non permettere mai più a nessuno di farmi
soffrire, ma per farlo avevo rinunciato alla mia parte malinconica,
la mia parte oscura, come dicevo un tempo. Adesso questo termine mi
fa sorridere, ma, alla fine di tutto, è un termine riuscito se si
pensa che quella parte di me la tengo sempre nascosta, al riparto
dagli sguardi altrui.
Poi
ho cominciato a fare Hosshaku Kempon, e oltre a riaprire quella
porta, come ho già detto, ho fatto in mille pezzi anche questa
scatola. Era un paraocchi, probabilmente, che non mi permetteva di
vedere una parte di me completamente sepolta da strati di esperienze,
pensieri e giudizi. Ho deciso di romperla per la sincerità, la
verità di cui mi sono sempre fatta baluardo.
Devo
dire, però, che ci si sente bene, ci si sente liberi dopo aver tolto
i paraocchi, per quanto la vista possa spaventare, mi sarei pentita
di più se non avessi visto affatto.
E'
dura riprendere il filo del discorso. Perché sì, sono cambiata,
sono maturata (anche se non troppo) ma in fondo sono sempre quella
ragazzina di cui avete letto fin ora, e adesso sto ricomponendo tutti
i pezzi di me che ho lasciato per strada: a partire proprio da qui,
dal mio diario di bordo, dai miei sfoghi e dalla scrittura che parte
da me, e deve partire da me per essere autentica, perché possa dire
qualcosa a chi legge. I raccontini sterili che non contengono nemmeno
un pezzetto dello scrittore che li ha partoriti non sono che un mero
esercizio di stile.
La
ritrovata me,
Marì