Marina è uno di quei personaggi che mi frullano nella testa da parecchio tempo. Mi piacerebbe poter dire che sia un mio alter ego, ma la verità è che lei rappresenta quello che intimamente vorrei essere e che solo talvolta sono. E' una piccola sfaccettatura di me, un riflesso che a volte catturo allo specchio come Vitangelo Moscarda di Uno, Nessuno, Centomila, ma che poi svanisce nel momento in cui la metto a fuoco. Vi offro qui le prime righe di quello che diventerà un romanzo o un racconto, ancora non so, e per maggiorni informazioni su Marina, vi rimando qui:
Marina
Marina
Marina
si svegliò in una camera d’hotel arruffata e scarmigliata, i capelli sembravano
un groviglio di fiamme esploso nell’accecante visione delle lenzuola bianche
accartocciate che l’avvolgevano completamente.
Si
tirò su a sedere spaesata: la luce le faceva strizzare gli occhi, e alla sua
destra, non c’era il corpo caldo di Massimo, il suo fidanzato. Erano arrivati a
Dublino la sera prima per una conferenza su Joyce: entrambi professori
universitari, lui di letteratura inglese e lei di americana, seguivano spesso
conferenze in giro per l’Europa insieme.
Con
la testa ancora pesante, scese dal letto e si sedette sulla scrivania della
camera per preparare la caraffa elettrica con il tremendo caffè che ne sarebbe
sgorgato da lì a pochi minuti.
Nell’attesa,
Marina cominciò a cercare i giro per la stanza qualche segno, un biglietto,
magari lasciatole eventualmente da Massimo, nel remoto caso in cui lui si fosse
preoccupato di avvisarla della fuga. Nulla. Non sul letto, né sul cuscino, né
nella doccia, né nel portacarte standard gentilmente omaggiato dal Trinity
College Campus, come suona altisonante, eh? Sì effettivamente sembrava di
trascorrere le vacanze a palazzo più che seguire una conferenza letteraria,vi era un’enorme distesa di acciottolato grigio delimitato da
palazzi in stile neoclassico bianchi, e al centro un arco con il campanile, che
pareva quasi di trovarsi nel cortile di un monastero, più che in un’università.
L’improvvisata
detective, che incominciava a riversare nel panico, non aveva trovato nulla. Strano.
Una prova era evidente, però, anche se non ai suoi occhi al momento annebbiati:
i vestiti di lui erano ancora lì: ordinatamente piegati sulla sedia, la
valigetta ventiquattrore con gli appunti dell’intervento che avrebbe dovuto
tenere da lì a poche ore, era intonsa, il portafogli e le chiavi della camera
ancora nel cassetto della scrivania. Possibile che Massimo si aggirasse solo
con i boxer e una maglietta sgualcita dal sonno per un campus universitario?
No. Eppure Marina decise di spegnere la terrificante (per un’italiana) caraffa
elettrica, indossare un paio di jeans e con la maglietta del pigiama
addentrarsi nei lunghissimi corridoi di marmo, vuoti, gelidi e spenti, alle
sette del mattino di quel 4 settembre.
Correva
leggerissima come un fantasma in quel corridoio senza fine, non aveva fatto in
tempo ad indossare nemmeno il reggiseno, presa dalla sensazione sempre più
corporea che fosse successo qualcosa di terribile a Massimo.
Quando
arrivò alla grande hall del campus, c’erano gruppi di professori in piccoli
gruppetti che discutevano con fogli alla mano e occhiali calcati sulla punta
del naso. Vi era un brusio concitato e quando Marina entrò trafelata nella
stanza, solo alcuni si accorsero di lei guardandola con espressioni incuriosite
e sfacciate nello sgomento.
Marina,
come in preda al sonnambulismo, vagò nella stanza per qualche momento, poi
riprendendo coscienza di sé cominciò a chiedere in inglese se avessero visto il
suo ragazzo. Sì, d’accordo uomo, quasi tutti lo conoscevano di fama, ma nessuno
o quasi l’aveva mai visto: è alto all’incirca un 1.85, capelli brizzolati, di
una strana sfumatura argentea- che senso avesse soffermarsi sui dettagli in
quel momento non se lo sapeva spiegare- occhi blu scuro, naso importante, fisico asciutto,
quasi rachitico a dire il vero, voce calda, erre moscia. Qualcuno l’aveva
visto? Non poteva essere sparito da molto!
I
professori si avvicinarono come ad inglobarla e si misero cerchi concentrici
attorno a lei, così che nella sua confusione poteva scorgere visi quasi
identici che parlavano contemporaneamente e nel chiasso creatosi, le parve di
non udire più nulla. In quegli attimi di solitudine forzata per non soccombere
ad un tale assalto, Marina socchiuse gli occhi, e con il volume portato allo
zero nelle orecchie, venne investita da una serie di immagini confuse, come di
sogno: immagini bluastre della camera d’albergo, la sensazione che delle mani
forti e ricoperte di peluria l’avessero afferrata forte, strattonata, portata
via di peso, forse anche la voce calda di Massimo, in quel momento rotta dalla
paura che urlava. Poi in un momento, come uno schianto, riprese ad udire quelle
parole forti dei professori, che la trivellavano di domande. E tra i volti
riconobbe quello di Amilcar Romero, capo dipartimento di letteratura inglese
all’università di Madrid, unico volto amico in quella panacea di esaltati.
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